Papa Francesco e le accuse che gli vengono rivolte. Il problema grave del dopo

Demagogo, populista, eretico e, naturalmente, comunista. Uno che protestantizza la Chiesa cattolica, sminuisce il primato papale, toglie sacralità alla cattedra di Pietro, si allontana dalla Tradizione, semina confusione tra i fedeli. Mentre, con i collaboratori di curia, Papa Francesco sta partecipando agli esercizi spirituali ad Ariccia, si continua a parlare di lui e a rivolgere a lui accuse di vario tipo. Accuse che sanno spesso di minaccia e di intimidazione. Si pensi ai manifesti con il viso in grugnito del papa apparsi qualche settimana fa sui muri di Roma o ai “dubia” resi pubblici dei quattro cardinali. Sono i tasselli variegati di una campagna sistematica di delegittimazione  che dicono di un fastidio crescente nei riguardi di papa Bergoglio. Non è la prima che questo succede. John Allen, per sedici anni corrispondente da Roma, ricorda che nel 1986 furono diffusi volantini diffusi che accusavano Giovanni Paolo II di eresia per aver indetto la prima Giornata interreligiosa di Assisi. E quando nel 1978 Paolo VI morì, un gruppo noto con il nome di Civiltà Cristiana affisse sui muri della capitale un manifesto ignobile per infangare la memoria del Papa appena scomparso: “Adesso vogliamo un Papa cattolico”.

La Chiesa è il Vangelo, non il legalismo del bianco e del nero

Siamo nel quinto anno del pontificato del papa venuto dalla periferia del mondo. Che ha rappresentato un vero e proprio tsunami sulla chiesa cattolica. Gesti e parole che hanno obbligato, tutti, ad una prospettiva di conversione per ricentrarsi sull’essenziale del Vangelo, l’unico  metro di misura valido per chi si dice cristiano. Un pontificato che ha immaginato la Chiesa, nel segno della misericordia, come “ospedale da campo” per gli uomini del nostro tempo, al di là delle frontiere confessionali, in grado di interloquire, sull’umano, con tutti. Perché, come ha ripetuto recentemente, la Chiesa è il Vangelo, non il legalismo del bianco e del nero. Papa Francesco ha rilanciato, con forza, il dialogo tra le chiese.

Il suo pontificato che si è mosso, concretamente, per avviare riforme strutturali, a cominciare dalla figura stessa del Papa. Questi non deve avere il carattere di monarca assoluto. Al contrario: deve presentarsi soprattutto come discepolo di Cristo. Deve lavorare per una Chiesa più comunitaria, capace di coinvolgere e valorizzare le componenti laicali, oggi ancora troppo marginali. Ha istituito un consiglio dei cardinali, per assisterlo nella governo della cattolicità. Ha concesso la piena libertà di parola e di proposta al Sinodo dei vescovi. Tutte decisioni che puntano a realizzare la collegialità sancita e richiesta dal concilio Vaticano II. Papa Francesco vuole portarla a compimento.

Non solo la riforma della Curia ma anche cose più piccole (si fa per dire): la pulizia alla banca vaticana, la creazione di un comitato anti-riciclaggio, l’adesione alla convenzione Onu contro la corruzione, la firma di accordi di cooperazione con vari Stati per perseguire crimini finanziari, l’istituzione di una Segreteria per l’economia per vigilare su correttezza e trasparenza dei bilanci dei dicasteri vaticani. Insomma, “una chiesa meno mondana, capace di resistere alla tentazione del potere, che sa opporre resistenza alle tentazioni del potere, della ricerca del successo, che sa non solo servire i poveri ma anche imparare dalla loro cattedra” (Enzo Bianchi).

Perché non sia una parentesi

L’esperienza del Concilio dimostra che servono decenni per ancorare le riforme nella realtà quotidiana della Chiesa. È chiaro, come ha scritto Marco Politi, che  “la rivoluzione di Francesco non può procedere se rimane solo addossata sulle spalle del pontefice argentino. Diventa cruciale il rinnovamento (o il non rinnovamento) nelle migliaia di diocesi, che costituiscono i terminali nervosi del grande ‘corpo’ cattolico di un miliardo e duecento milioni di fedeli.”

Papa Francesco, con coraggio, sta aprendo una strada. Perché non sia una parentesi da chiudere in fretta, perché diventi sentiero battuto, è necessario che ciascuno faccia la sua parte. Guardando avanti, non indietro. Lo ha ripetuto più volte: “Il restare, il rimanere fedeli implica un’uscita. Proprio se si rimane nel Signore si esce da sé stessi. Paradossalmente proprio perché si rimane, proprio perché si è fedeli si cambia. Non si rimane fedeli, come i tradizionalisti o i fondamentalisti, alla lettera. La fedeltà è sempre un cambiamento, un fiorire, una crescita”.