I cristiani di Terrasanta: «Non lasciateci soli. Anche i pellegrinaggi sono un segno di speranza»

«Non siamo una Chiesa del sepolcro, ma della speranza. Siamo una Chiesa della sofferenza, ma anche della risurrezione. Noi cristiani di Terrasana siamo in prima linea per la pace. Siamo pochi, ma non saremo mai delle pietre o dei freddi musei». Parole forti e convinte quelle di don Raed Abusahliah, palestinese, segretario generale della Caritas di Gerusalemme operante in Terrasanta con aiuti umanitari e servizi sociopastorali. Ordinato nel 1990 e laureato in Filosofia, in passato parroco e cancelliere del patriarcato latino di Gerusalemme, ha parlato in perfetto italiano giovedì sera nell’aula di Teologia del Seminario in un incontro sulla complessa realtà dei cristiani in Terrasanta. L’iniziativa si è inserita nel progetto delle Acli «Terrasanta 2017», finalizzato a far conoscere la realtà mediorientale e a sostenere iniziative di solidarietà. Accolto dall’applauso del folto pubblico presente, fra cui il rettore del Seminario don Gustavo Bergamelli, è stato presentato da don Alberto Maffeis, biblista del Seminario, come «un prete di una comunità piccola ma vivace». «Sono arabo, palestinese, cristiano cattolico e sacerdote nello stesso tempo — ha  esordito don Abusahliah con orgoglio —. Si ritiene comunemente che tutti gli arabi siano musulmani. Invece ci sono anche arabi cristiani con la propria identità». Il sacerdote palestinese ha bocciato la parola «minoranza» per indicare i cristiani locali. «Siamo pochi, ma respingo il termine “minoranza”, perché significa debole, pauroso, straniero. In questo senso non siamo minoranza, siamo persone, siamo parte integrante della Palestina, siamo cristiani che testimoniano la fede e costruiamo ponti di pace».

Don Abusahliah ha poi fornito dati eloquenti che testimoniano il crollo numerico dei cristiani in Terrasanta a causa dell’emigrazione, soprattutto verso Americhe e Australia. Nel 1940 Gerusalemme contava 25.000 cristiani, oggi ridotti a 13.000. Nello stesso anno, il 95% degli abitanti di Ramallah era cristiano, oggi sono il 10%. Così pure Betlemme, dall’85% al 25%. Nel Duemila, a Gaza c’erano 5.000 cristiani, oggi ridotti a 1.100. «Dobbiamo incoraggiare i cristiani a restare, nonostante la realtà di instabilità politico-economica e la disoccupazione che sfiora il 50%. Per i nostri cristiani, emigrare significa trovare libertà, lavoro e futuro. C’è chi dice che fra trent’anni i cristiani in Terrasanta saranno scomparsi». Nonostante ciò, don Abusahliah ha speranza nel futuro. «La presenza cristiana locale è responsabilità di tutte le Chiese del mondo, perché la fede cristiana è nata in Terrasanta. Non dovete aver paura per noi, perché siamo qui per volontà di Dio per l’eternità e mai perderemo la speranza nella nostra risurrezione».

Il sacerdote palestinese ha lanciato due appelli, facendo proprie anche le parole dell’arcivescovo Pierbattista Pizzaballa, bergamasco di Cologno, amministratore apostolico del patriarcato latino di Gerusalemme. «Non lasciateci soli, venite in pellegrinaggio in Terrasanta, perché è segno di solidarietà e servizio alla pace. Abbiamo bisogno di solidarietà non soltanto economica, ma anche di quella fatta di preghiere. Purtroppo i politici sanno fare soltanto le guerre. Invece, se ci sarà pace a Gerusalemme, capitale spirituale di tutto il mondo, ci sarà pace in tutto il mondo». Don Abusahliah ha infine ricordato la fattiva opera della Caritas locale, impegnata in piccoli-grandi progetti, come campi di calcio e scuole a disposizione di tutti, senza distinzione di razza o religione. «Anche nelle piccole iniziative possiamo essere ponti di pace, convivenza e fratellanza».