L’Europa del nostro scontento

Il 60° dei Trattati di Roma è già alle nostre spalle. I problemi irrisolti, invece, stanno ancora tutti davanti a noi.

Est-Ovest e Nord-Sud

L’elenco essenziale delle fratture europee: Ovest/Est, Nord/Sud. Non si tratta di geografia, ma di politica. Ovest/Est: i paesi dell’Est, usciti in sottosviluppo dal dominio politico-militare dell’URSS, si sono agganciati all’Europa e alla Nato. Ma non hanno nessuna intenzione di camminare in una direzione federale europea, rinunciando a quote di sovranità nazionale. Si tratta di un’adesione povera e strumentale all’Unione europea. I Paesi del Nord-Europa, oltre a rimproverare storicamente a quelli del Sud di essere le cicale spendaccione d’Europa – donne e alcool, secondo la pittoresca espressione di Dijsselbloem, presidente dell’Eurogruppo – rifiutano pervicacemente di farsi carico dell’enorme problema dell’immigrazione dall’Africa e dal Medioriente, che ha come privilegiata porta di ingresso l’Italia.

La burocrazia

Alle fratture politiche si deve aggiungere una complessità barocca delle istituzioni europee: da una parte quelle “federali” – Parlamento e Commissione – dall’altra quelle “intergovernative” – Consiglio europeo dei capi di stato e di governo e Consigli dei ministri europei. Democraticamente più legittimate le istituzioni “federali”, ma più potenti quelle intergovernative, fondate, come dice la parola, sul rapporto politico volontario dei governi europei, governato dalla paralizzante regola dell’unanimità nelle decisioni. Il punto di intersezione e di ricaduta di queste linee istituzionali conflittuali è la burocrazia di Bruxelles, quale governance amministrativa reale, sulla quale e contro la quale vengono scaricati lo scontento dei cittadini europei e le responsabilità politiche che i governi non vogliono assumersi.

Niente Europa a due velocità

Su questi assetti politico-istituzionali, sulla storia che li ha generati e sulle possibili vie di avanzamento della costruzione europea basterà qui rimandare per un approfondimento sistematico a “Sdoppiamento – Una prospettiva nuova per l’Europa” di Sergio Fabbrini. Sì, perchè di costruzione si tratta, per la quale il consenso e la mobilitazione dei cittadini europei sono condizione fondamentale decisiva. La Dichiarazione di Roma del 25 marzo 2017, condivisa dai Paesi firmatari, non ha aggiustato nessuna delle fratture sopra elencate. L’idea avanzata dalla Merkel, subito condivisa dall’Italia, di procedere con un’Europa a due velocità è stata accantonata o, per peggio dire, diluita in una più evanescente: quella di un’Europa, che procede con “ritmi e intensità diversi”. Al momento, ciò significa la presa d’atto consapevole e condivisa di una paralisi. Un pò poco per dire che il bicchiere è mezzo pieno.

Le scadenze elettorali

Il fatto è che i 60 anni cadono alla vigilia o quasi delle scadenze elettorali di alcuni Paesi fondatori: la Francia il 23 aprile/7 maggio, la Germania il 24 settembre, l’Italia nel 2018. Scadenze, in cui l’accumulazione dello scontento rischia di minare alle fondamenta la costruzione europea. L’Olanda ha già votato, abbastanza in tempo per segnalare che le forze antieuropeiste continuano a crescere in consenso, senza tuttavia sfondare. A seconda dei risultati elettorali, si potrà, probabilmente, riprendere la strada faticosa che porta verso gli Stati uniti d’Europa.

Assumersi responsabilità nuove

Per quanto vi si giri intorno, la questioni cruciali all’ordine del giorno restano due: a) a 60 anni di distanza il rischio di una paralisi totale del cantiere europeo e perciò della deflagrazione dell’Europa è altissimo; b) l’espressione “ritmi e intensità diversi” segnala che non la velocità di passo, ma il traguardo finale non è affatto condiviso da molti Paesi, dall’Inghilterra, dai Paesi scandinavi e dai Paesi dell’Est europeo, Polonia in testa. Perciò appare inevitabile che il gruppo di Paesi che condivide il traguardo federale europeo si costituisca come motore di spinta dell’intero processo e che affidi a istituzioni europee la politica estera, la politica della difesa, la politica fiscale, la politica di welfare. Il quadro internazionale di solitudine europea, sotto pressione dalla Russia di Putin e “abbandonata” dagli Usa di Trump, costringe i politici europei ad assumersi responsabilità nuove rispetto ai loro cittadini. Anche se, va detto, qui scatta la legge della corrispondenza biunivoca tipica dei regimi democratici: ciò che pensano i politici è, in ultima istanza, ciò che pensano gli elettori.

Generazioni senza memoria

Ora, qual è la percezione del mondo dei cittadini europei da qui sotto la campana di vetro di più di settant’anni di pax europea? Che pensano i cittadini europei immersi nel loro placido e pervasivo Welfare? Occorre riconoscere realisticamente che le generazioni post-belliche hanno dimenticato le origini dell’urgenza europea nelle due guerre civili europee, degenerate in guerre mondiali. La generazione più giovane si avventura per l’Europa e per il mondo, senza più confini. La generazione dei padri, invece – i babyboomers del secondo dopoguerra – fa fatica a vedere le urgenze del mondo, il ribollire ai margini dell’Europa di popoli in ascesa, di Stati e confini in declino, di miseria e di volontà di riscatto, di guerre e sangue.

Abbracciare i propri confini

I popoli europei paiono intorpiditi dal nuovo oppio di “un nichilismo senza abisso”, per riprendere un’intensa espressione di Allan Bloom. È una cultura di crisi e di decadenza. Spesso viene ricoperta dalla patina dorata dell’identitarismo e del nazionalismo. Camminare a occhi bassi nel mondo di oggi non impedirà di inciampare in se stessi. Ci voleva un uomo che viene “da la fin del mundo” per richiamare gli europei al loro destino. D’altronde le radici giudaico-greco-latino-cristiane, cui molti si appellano per una difesa aggressiva dell’identità europea, affondano, a loro volta, in un humus di lingue, culture e popoli pre-esistenti dell’intero Mediterraneo e Medioriente. Sì, l’unico modo per non perdere i propri confini è quello di abbracciarli. Solo questa spinta ideale e culturale profonda può alimentare il cantiere federale europeo. Le rappresentanze politiche non possono inventare un pensiero che non c’è, “rappresentano”, appunto, solo ciò che c’è. A meno che la politica torni ad essere “visionaria”, come lo fu per i Padri fondatori dell’Europa.