La scuola prigioniera. Una straordinaria esperienza in carcere

Una lezione in carcere. Gli alunni e le loro storie

“Ma cosa cavolo vieni qui a dirmi?! Dei diritti della persona, della legge che ci difende… ma che ne sai?! Nessuno mi ha difeso dal vicino che allungava le mani dappertutto quando ero una ragazzina! Tutti a fingere di non vedere, anche in casa!… che era ricco e faceva i regali!”

È l’ora di diritto con il piccolo gruppo della sezione femminile che ha scelto la scuola ed ha rinunciato all’aria. A.  ha lo stesso atteggiamento duro e strafottente di sempre, ben appoggiato su un corpo che sembra pronto ad offendere. Percorso da rabbie antiche, da ferite e disincanto. Pronto anche a prendere le parti delle concelline più deboli, più ferite. L’aveva fatta poi pagare al vicino, e non solo a lui: ora era qui, da diversi anni. Una rabbia di riscatto, un po’ disperata la sua, forte disprezzo per gli uomini; da cui aveva pur avuto due figlie: “non dell’amore” diceva, “però molto amate”.

Tre corsiste, quarto anno del tecnico-commerciale. Percorsi interrotti anni fa ma tanta esperienza.  Quando c’è A. e si sfiorano riferimenti alle storie personali o alle questioni di genere l’auletta si trasforma in un recinto per lo scontro. Un docente se ne è già andato, alcune hanno deciso di stare richiuse nei contenuti disciplinari evitando lo scontro e il rapporto. La piccola docente di diritto no.

F. è molto educato e rispettoso in classe, si presenta sempre ordinato e pulito, stringe la mano agli insegnanti. Non è lì solo per uscire dalla sezione (se sei lì per quello non duri molto) né per discutere e “duellare” con il professore che viene da “fuori”. Neppure per recitare la parte del bravo detenuto per il magistrato di sorveglianza. È lì per suo figlio che adesso ha sette anni, anzi quasi otto, e che lui si è goduto per neanche due anni. Poi la rapina, andata male. E il senso di colpa per l’infanzia senza padre regalata al figlio e gli anni di pena della moglie. E per il  terrore provocato (per quattro soldi!) alla famiglia dei gestori della panetteria, persone generose, aveva poi saputo, con un ragazzo disabile. Un senso di colpa portato in piedi, consapevole che non ci sarà “pareggio” con nessun ricambio. È un “fondo” che gli è difficile attraversare con lucidità e coraggio, pensando di poter, o tornare, verso chi ha dovuto camminare nel distacco o nella ferita. Difficile pensare che possano serbare una attesa, una disposizione.

F. non ha studiato granché ma sogna che lo faccia il figlio. Intanto si è iscritto ai corsi: vuole parlare e scrivere meglio, alla moglie e al figlio. “Spero di pensare meglio, più libero”, mi dice.  La moglie ha cresciuto bene il piccolo: lei ha già compiuto più di un miracolo ed ha caparbiamente tenuto la relazione con lui e, per quanto possibile, quella tra lui e il figlio. Il primo anno a scuola è andato bene: i docenti sono colpiti dalla sua sobrietà e della sua franchezza. Legge, studia, ascolta con attenzione: vuol capire vuol conoscere cose da consegnare. Lo appassionano i racconti, le storie di vita, ed ha un occhio particolare per le scienze, i processi della natura, della vita. E per le tecniche, le pratiche: erano l’unico ponte di rapporto con un padre di pochissime parole, triste e consumato da una povertà da cui non riusciva ad uscire.

“Lettera al padre”

In classe si legge e si commenta la “lettera al padre” di Kafka: lui sta in silenzio, non interviene. Ma alcuni giorno dopo porta in classe una “lettera a mio padre”. Parla del profumo del legno e del gusto delle cose riparate bene; in silenzio e insieme al sabato e dell’unica parola scambiata allora tra padre e figlio: “Aiutami …”. Per reggere o per tenere, per stringere… o anche solo per farsi accanto. Il sabato, di giorno papà non aveva ancora bevuto, e diceva “Aiutami…”. Tanto bastava a reggere un ricordo che nella lettera appariva fatto anche di nostalgie dure per attenzioni non avute, per la carezza che non era mai venuta.

Le lettere lette a scuola erano per lo più di figli abbandonati, un po’ rabbiosi, molto amari. Quanti figli e figlie soli, durante quelle settimane avevano scoperto tra i poeti e gli scrittori, Alda, Franz, Giacomo, Oscar. E quanti padri e madri chiamati alla vita dai figli (Roberta, Alessandro, Eraldo).

Poi nelle ore di matematica si era costruito il grafico delle famiglie monogenitoriali, e degli affidi e delle adozioni in Italia e in Europa. Figli che legano famiglie, legami tra famiglie fragili e più strutturate: una sorpresa, grande discussione! Sui servizi che portano via i figli, sugli affidatari di cui si soffre il confronto, sugli insegnanti dei figli che fan vergognare. E insieme anche la grande fatica di capire le formula per giungere ai dati e per costruire le tendenze.

Carcere e scuola

Seguire per alcuni anni le attività e la vita delle classi di un istituto di pena, è stato leggere l’esecuzione penale con una attenzione pedagogica. Si sono incontrate ed ascoltate le storie di vita di uomini e donne del reato e della pena, i loro pensieri, le riflessioni raccolte nella scuola del carcere. Si sono osservate le pratiche di insegnamento, si è discusso e si è ricercato molto con gli insegnanti.  Si è necessariamente lavorato anche con le  altre figure professionali presenti in carcere. Quanto emerso ha tratteggiato i caratteri di “una esperienza di soglia”, nella quale l’esperienza educativa accoglie la condizione umana provata, chiamata alla verità dall’ombra, dalla colpa e dalla pena. L’attività formativa ha continuamente cercato di sostenere il riscatto e la riparazione, di dare senso alla sofferenza e di aprire il conflitto alla riconciliazione.

La scuola può cambiare il carcere, l’esperienza di detenzione; certo ne forza le logiche e le pratiche, ne riapre il tempo. Il carcere cambia la scuola: la scuola si scopre centrata sugli studenti e sulle loro storie; può porsi come luogo per la riflessione e la cura delle intenzionalità; aiuta la costruzione di relazioni, di responsabilità e di apprendimenti. La scuola in carcere a volte ridisegna l’educazione ed il rendere giustizia, avvia esigenti movimenti di incontro, fa ripensare alle vittime, pulisce il futuro.

Un anno dopo

Dopo un anno F. è passato al corso di scuola superiore anche se sa che non lo concluderà. Fine pena è ormai vicino: “Ho un regalo per loro: me ne andrò lontano. Il mio tesoro non dovrà vergognarsi o dire bugie sul papà ai suoi compagni e sua madre potrà rifiatare, sarà libera. Anche le nostre compagne vivono la prigione e sperano la fuga”: così a fine febbraio, occhi negli occhi.  Ma oggi F. sta zitto durante l’incontro del gruppo, con gli occhi assorti. Quando mi saluta a fine lezione mi guarda dritto: “Torno a casa, devo farlo. Devo dire che ho sbagliato e sono capace di riprendere il filo, che ho lavorato su di me per sostenere la durezza che chiederà. Chiediamo tanto, che si può amare anche se si è compiuto un reato. Che si può ricominciare”. Mi lascia in mano un momento una cartolina: è di suo figlio per la “festa del papà”. C’è scritto: “La prossima staremo costruendo la panchina di legno per il giardino come quella che avevi fatto con il tuo papà”.

La scuola in carcere può ritessere il tempo e le scelte. Può insegnarti a partire: sarà “orientamento”? Di nuovo “figli dell’uomo”, non già determinati, ma ancora nella possibilità di essere altro: di riscattarsi, di riparare, di lasciar andare la colpa nei giorni e nel rischio degli incontri. F. si è informato sulle associazioni delle famiglie con figli disabili della sua valle: ha scritto ad una di queste dicendo che voleva dare una mano. In aramaico “figlio dell’uomo” significa “essere umano”.

A. è invece passata al quarto anno, più impegnativo: chiede molta più disciplina e continuità. Comincia a pensare che potrebbe arrivare all’esame di Stato. In diritto va bene: ha trovato un modo per memorizzare e collegare i contenuti dei dispositivi di legge. Le piace molto la storia, “specie quella delle ricostruzioni (che fanno soprattutto le donne) più che quella delle guerre (che fanno gli uomini”. Anche A. sta vivendo un intenso anno scolastico: ha letto e discusso animatamente, ha incontrato  con le compagne le avvocatesse del Centro antiviolenza, ha anche scritto un articolo, lettera-aperta sul giornale del laboratorio di scrittura al Garante per i diritti delle persone detenute. Ha commentato piangendo le poesie della Merini e di Ada Pozzi, e imparato come si fa un bilancio sociale.

All’insegnante di diritto, l’ultima lezione, ha detto “Grazie, qui a scuola mi state insegnando la capacità di difendermi in un modo diverso”.