Italiani, una società “matura”: un milione in più di cinquantenni nel mondo del lavoro

Cinquantenni in prima linea nel mondo del lavoro. Alessandro Rosina, professore ordinario di Demografia nella Facoltà di Economia presso l’Università Cattolica di Milano, nel volume “Il futuro che (non) c’è. Costruire un domani migliore con la demografia” (Bocconi editore 2016), scritto con Sergio Sorgi, sostiene che stiamo vivendo un passaggio unico nella storia dell’umanità, perché stiamo andando verso una società matura, in cui i cinquantenni svolgono ancora un ruolo da protagonisti. «Per millenni la storia dell’uomo è stata caratterizzata da un regime demografico caratterizzato da alta mortalità e alta natalità. Ovvero erano alte le nascite ma con elevati rischi di morti a tutte le età. Quindi la popolazione aveva la forma di piramide: molti giovani ma pochi arrivavano in età anziana. Gli over 65 erano meno del 5 percento. Il processo di transizione demografica, innescato in combinazione con la rivoluzione industriale, ha portato a una riduzione delle nascite e all’aumento progressivo della durata di vita. Come conseguenza nella popolazione ci sono meno giovani e più persone mature. La sfida è come fare in modo di non subire l’invecchiamento della popolazione come peso e come problema, ma costruire le basi di un nuovo benessere in una società più matura», dichiara il docente universitario e saggista, editorialista de “La Repubblica” che studia le trasformazioni demografiche, i mutamenti sociali, la diffusione di comportamenti innovativi.

Nel 2015 la forza lavoro nella fascia 55-64 era composta da oltre 3,5 milioni di persone. Il volume rivela che nei prossimi anni “avremo un milione di over 55 in più nel mercato del lavoro”. Quindi non esiste più un’età, valida per tutti e valida per sempre, per mettersi da parte? 

«Per favorire l’obiettivo di una lunga vita attiva va aiutato il singolo a promuovere al meglio il proprio benessere fisico, sociale e mentale, a mettersi nella condizione di valorizzare pienamente, in ogni fase della sua esistenza, le proprie capacità e le proprie competenze. La questione non è tanto chiedersi fino a quanti anni in più bisogna far lavorare le persone, ma quella di fornire strumenti culturali e operativi che favoriscano la possibilità di rimanere attivi il più a lungo e piacevolmente possibile. Questo significa, appunto, che non c’è un’età predefinita per mettersi da parte. Ciascuno è chiamato a valutare i tempi giusti, cercando di dare il meglio più a lungo, ma preparandosi anche a un efficace passaggio di testimone con chi verrà dopo».

Se è vero che nel 2030 un occupato su quattro sarà over 55, come riuscire a valorizzare al meglio nel mercato del lavoro questo esercito di ultra cinquantenni? 

«Questa è una delle sfide cruciali per la crescita del nostro paese. Se riusciremo a valorizzare al meglio le capacità, l’esperienza e la voglia di fare in tale fase della vita, l’Italia dimostrerà di essere un paese non solo in crescita, ma in grado di porsi come riferimento nella costruzione di una nuova società che trasforma in vera opportunità il vivere a lungo e bene. Se invece non ci riusciremo, subiremo le conseguenze di una popolazione che invecchia in un’economia in declino e con costi sociali in aumento. In concreto, la valorizzazione degli over 55, naturalmente, richiede un modello di sostenibilità al lavoro capace di mediare le esigenze dei lavoratori di rimanere produttivi con quelli delle imprese, in difficoltà a rendere efficiente il rapporto tra costo del lavoro e produttività».

Cos’è l’“Age Management”? 

«Per Age Management s’intende un insieme coerente di risposte che le aziende e le organizzazioni possono dare per migliorare il contributo professionale dei singoli a tutte le età e in particolare in quelle più mature. L’attuazione e la realizzazione di tali risposte richiede però un nuovo atteggiamento culturale e il superamento di molti stereotipi legati a una rappresentazione negativa della fase più matura dell’età adulta. Lo stesso termine di lavoratore «anziano» andrebbe evitato perché va a consolidare schemi superati sulla condizione dei cinquantenni, anche over 55. Più che ragionare per categorie di età il focus dovrebbe essere sul corso di vita, sulle sue diverse fasi, con l’obiettivo di gestire nel modo migliore i passaggi e valorizzare il meglio di ogni fase vissuta e attraversata».

Nell’Introduzione al testo c’è scritto che “non c’è futuro senza demografia”, perché? 

«Ci sono due risposte che si possono dare, una quantitativa e una qualitativa. La prima è legata al fatto che possiamo produrre beni materiali, migliorare l’ambiente urbano, potenziare la tecnologia, ma se poi non ci sono le persone, tutto il resto non serve a nulla. Se quello di cui si occupa la demografia non funziona, la popolazione si estingue e quindi il futuro si spegne. La seconda risposta riguarda invece il cambiamento qualitativo che passa attraverso il ricambio generazionale. La popolazione non è fatta di esseri immortali sempre uguali a se stessi. Si entra per nascita nel mondo e, via via, i nuovi arrivati prendono il posto che non è però semplicemente quello lasciato da altri. Alla base del mutamento della vita umana sul pianeta c’è quindi il rinnovo continuo della popolazione, da intendere come sguardi nuovi sulla realtà con nuovi desideri, nuove sensibilità, nuovi progetti da realizzare. Il nuovo è sempre diverso e con la sua diversità reinterpreta il mondo e inventa un nuovo futuro. Ma perché il nuovo abbia successo, deve essere incoraggiato a emergere e diventare parte attiva dei processi di produzione di nuovo benessere collettivo. Come farlo è l’argomento principale del libro».