Maria De Filippi, la regina del piccolo schermo, e la televisione che non educa

Maria De Filippi è il magnete della televisione italiana. Attira il pubblico come Violet Jessop i disastri in mare: nessuno ha scampo quando a bordo c’è la regina del piccolo schermo. Gli ascolti, d’altra parte, le rendono ragione e la posizionano costantemente ai primi posti nella rincorsa all’ultimo spettatore.
Che la sua capacità ammaliatrice, celata dietro a un’emotività trattenuta e a una presenza scenica (poco) ingombrante, non tenesse in grande considerazione le sorti del dibattito pubblico lo si era capito da tempo. Adesso, però, è giunta conferma dalla diretta interessata che in un’intervista al Corriere rivela: «Non credo che la tv debba essere pedagogica, dare modelli di comportamento. Cerco storie di persone con cui la gente si possa identificare». A vedere i programmi, non si fatica a crederlo. Eppure, che lo voglia o meno, Maria De Filippi offre un contributo considerevole all’educazione del Paese. Almeno in quel senso antico, e dimenticato, di tirare fuori ciò che di meglio (o di peggio) c’è dentro alla persona. E lo fa con una potenza di fuoco senza paragoni: oltre 3 milioni di telespettatori seguono ogni giorno i tormenti del cuore in «Uomini e donne», almeno 4 milioni la corsa al successo nel serale di «Amici», fino a 5 milioni le confessioni pubbliche di «C’è posta per te». Un’audience in stragrande maggioranza composto da giovani donne (15-35 anni), prevalentemente concentrate nel Meridione e con un livello di istruzione medio basso. Ovvero la fetta prevalente di un Paese in cui la metà degli italiani arriva a fatica alla licenza media, il 35 per cento supera l’esame di maturità e soltanto il 13 per cento completa il ciclo ottenendo una laurea. È dunque alla pancia di una nazione impoverita e distratta che Maria De Filippi si rivolge, offrendo come unica speranza di futuro il riscatto di un talento artistico da far esplodere in prima serata.
Karl Popper credeva a tal punto nella funzione educativa della televisione da invocare un arbitro per regolarne la pratica: «Chiunque sia collegato alla produzione televisiva deve avere una patente, una licenza, un brevetto, che gli possa essere ritirato a vita, qualora agisca in contrasto con certi principi». Chi avrà il coraggio di estrarre il cartellino rosso per la signora della tivù?