Dove eri tu? Provocazione migranti e coscienza cristiana

L’articolo pubblicato la settimana scorsa ha suscitato numerose prese di posizione. Sono stati in tanti a chiamarmi o a scrivermi per dire la loro idea riguardo ai temi sollevati. Qualche prete mi ha chiesto la possibilità di pubblicare il testo nel giornale parrocchiale. Vale dunque la pena riprendere le questioni di fondo. Lo faccio grazie anche un contributo che mi è giunto e che trovo alquanto stimolante.

I conti con le persone concrete

La questione del rapporto carità/giustizia, già di per sé assai complesso, si complica ulteriormente quando si esce dagli schematismi ideologici per affrontare la realtà concreta. Soprattutto si attraversano emergenze come quella attuale dei migranti.

Un esempio. Un africano arriva in una struttura della diocesi, tipo il Patronato San Vincenzo ma non solo. L’unica decisione “giusta” nel senso che ristabilisce il migrante nella pienezza dei suoi diritti, sarebbe il riconoscimento del diritto di cittadinanza. È quello che viene chiamato permesso di soggiorno. Solo questo consente infatti di accedere a tutti gli altri diritti: dalla casa, al lavoro, alla salute… Lo status di profugo che dà diritto ai discussi 35 euro al giorno e a tutto quello che ne consegue, è solo una condizione provvisoria che serve allo Stato per stabilire chi abbia diritto a questo documento e chi no.

Ebbene, è ormai accertato che ad una stragrande maggioranza dei richiedenti (la cifra si aggira attorno all’ottanta per cento) il permesso di soggiorno viene negato. Non solo, ma viene consegnato loro un documento di espulsione che però non diverrà mai esecutivo, perché nessuno vuole fare ritorno al paese di origine.

Si può discutere all’infinito se questo sia o no giusto, ma fa parte dei diritti e doveri di uno Stato di decidere chi ne faccia parte e chi no. Ora: se per le decisioni dello Stato Italiano l’80% dei profughi finisce per strada, come ci si deve comportare nei loro confronti? Che cosa vuol dire per un cristiano esercitare la carità (e giustizia) in questi casi?

L’esperienza dimostra che per molti la prospettiva di essere ricusati è vissuta come una condanna e il finire di colpo dalla struttura protetta alla strada non viene compreso e può dare origine a reazioni disperate. In questo senso l’accoglienza che tenta di alleggerire il disagio e di prospettare un minimo di speranza a chi avendo scommesso tutto, rischia di perdere tutto, è davvero solo assistenzialismo?

È vero che questo tipo di accoglienza non consente di fare progetti e di prendere decisioni a lungo termine. Si vive alla giornata, si sta nel presente. Ma la migrazione di interi popoli è un’emergenza eccezionale destinata a mettere in crisi i nostri consolidati modi di vedere, di pensare e di vivere.

L’amico che mi scrive aggiunge – immagino provocatoriamente – la nota che “in fondo fa parte della speranza cristiana attendersi il crollo di un sistema ingiusto e lavorare attivamente perché ai diseredati sia riconosciuto un futuro migliore. E se l’assistenzialismo fosse un modo per prendere tempo in vista dell’inevitabile compimento della volontà di Dio che ‘vuole che tutti gli uomini siano salvi’?”

Ero straniero e mi hai accolto

Ma c’è una questione che precede quella del rapporto carità/giustizia e che per un cristiano dovrebbe essere fondante. È il rapporto carità/fede: cosa vuol dire fare la carità per un cristiano cioè un credente in Gesù Cristo, un suo discepolo? È ovvio – dicono i benpensanti -: fare del bene. Ma la cosa è meno ovvia di quanto si creda. Ritorniamo all’esempio dei migranti ricusati: come bisogna porsi di fronte a loro? Prima o dopo, chi se ne occupa deve prendere due decisioni:

a.   Chi è per me quella persona che è stata ricusata: uno straniero che non c’entra niente con me? Un nemico che può mettere a rischio la mia vita e il mio futuro? Un bisognoso che va aiutato? O un figlio di Dio come me, che chiede a ciascuno di noi di essere trattato per quel che è nella fede e cioè mio fratello? La carità non è anzitutto un modo di fare, ma un modo di vedere: la carità non consiste forse nel vedere Gesù nel povero e accoglierlo come sua immagine? Forse poi riuscirò a fare poco per lui, perché magari sono povero anch’io ma almeno gli avrò riconosciuto il massimo della dignità umana e cioè l’immagine e la figliolanza divina.

b.      Il problema delle migrazioni (così come quello della povertà e dell’ingiustizia) va ben oltre le possibilità individuali di governarlo. Per questo non si chiede a ognuno di noi e neppure a noi insieme, di risolverlo. Ma a noi come cristiani è chiesto di fare solo e tutto quello che possiamo fare. Non è scritto nel museo di Yad Vashem  a Gerusalemme che chi avrà salvato un solo uomo avrà salvato tutta l’umanità? Ebbene è il momento che di fronte a un’emergenza così grave ognuno sia chiamato a fare la sua parte. Non è in fondo un atto di fede prima ancora che di carità accogliere il povero Cristo che bussa alle nostre porte?