A proposito di don Lorenzo Milani. Un colloquio con Lella Costa

Foto: Barbiana

Barbiana, un  luogo ignorato dalle cartine geografiche

È lunga la strada per salire a Barbiana. Dopo aver attraversato Vicchio, il paese di Giotto e del Beato Angelico, un cartello comincia a segnalare il posto. Arrivati al lago Viola, un piccolo lago artificiale, un largo sentiero si inerpica tra faggi e i castagni, tra isolati casolari protetti dal ringhiare dei cani e segnali sempre più radi. Anche per le macchine non è facile salire: la strada è asfaltata solo per il primo pezzo, il resto è una mulattiera polverosa.  La chiesa e la canonica appaiono dopo quaranta minuti di buon cammino: un piccolo pezzo di paradiso, al di là dei confini del mondo, piantato tra i monti e i sassi del Mugello. La casa più vicina ad almeno mezzo chilometro, le altre sparse per i monti. Il paese non è che una chiesa, una canonica e un cimitero. E tanto, tanto silenzio.

Qui ha vissuto, per quasi tredici anni, uno dei preti più significativi della chiesa italiana del Novecento: don Lorenzo Milani. Che ha voluto essere seppellito con i paramenti sacri e gli scarponi da montagna nel piccolo cimitero posto nelle vicinanze, dove il prossimo 20 giugno si recherà a pregare papa Francesco. Un papa che non ha fatto mistero di amare il prete toscano. Lo ha additato come credente innamorato della Chiesa anche se ferito ed educatore appassionato e, come lui, capace di gesti profetici fatti nel nome del Vangelo e di nient’altro.

Contraddizioni e profezia

Per tentare di capire l’ avventura spirituale di don Lorenzo,  bisogna fare – a piedi – tutta la strada che porta fino lì. Mentre si sale, ci si deve interrogarsi sulle ragioni per le quali – a cinquant’anni dalla morte, avvenuta a Firenze il 26 giugno 1967 – don Lorenzo continui a provocare la coscienza di credenti e non credenti del nostro paese.  Tantissimi infatti sono gli articoli, i libri, i dibatti e i convegni promossi per ricordare la figura.

Vivaci sono ancora oggi le contrapposizioni che si agitano attorno alle sue scelte. Eppure per poter parlare di questo prete, segno di contraddizione da vivo come da morto, bisogna fare i conti con alcuni paradossi presenti nella sua biografia. Don Lorenzo è figlio di madre ebrea e poi prete cattolico. È agnostico fino a vent’anni e testimone dell’Assoluto per il resto della vita. È colto, coltissimo, eppure capace di condividere fino in fondo la vita con i più poveri. Vive in un paese, Barbiana appunto, non segnato sulla carta geografica. Un prete carico di contraddizioni ma certamente anche carico di profezia. Distinguere l’uno dall’altra è un esercizio importante. Solo così si può evitare ogni forma di “reducismo” e, insieme, si valorizzano intuizioni e percorsi che forse non si sono ancora presi sufficientemente sul serio.

Il maestro deve essere profeta

Il maestro deve essere, per quanto può, profeta, scrutare i segni dei tempi, indovinare negli occhi dei ragazzi le cose belle che essi vedranno chiare domani e che noi vediamo solo in modo confuso

È un passo, molto bello, della Lettera ai Giudici che riassume bene la tensione e lo slancio di don Lorenzo. Viene mandato da giovane prete a San Donato di Calenzano, un paese “operaio” posto tra Firenze e Pisa. Lì si rende presto conto che la maggior ingiustizia sta nel non possedere la parola perché

la povertà dei poveri non si misura a pane, a casa, a caldo, ma si misura sul grado di cultura e sulla funzione sociale.

Comincia quindi ad organizzare una “Scuola popolare” serale per adulti aperta a tutti quanti, indipendentemente dalle idee politiche e religiose. Volevano soltanto diventare “sovrani”, capaci di pensare e ragionare con la propria testa. Una scuola laica, non confessionale, ma tenuta da un cristiano esemplare.

Quando ci si affanna a cercare apposta l’occasione di infilar la fede nei discorsi, si mostra di averne poca, di pensare che la fede sia qualcosa di artificiale aggiunto alla vita e non invece modo di vivere e di pensare.

Quando nel 1954 viene trasferito a Barbiana, apre subito la scuola, stavolta destinata ai bambini figli dei montanari che, a poco a poco, abbandonano i cascinali per andare a lavorare e a vivere vicino alla città. Anche lì, nella piccola stanza – ancora oggi tappezzata di carte geografiche – senza riscaldamento, don Lorenzo vive coi ragazzi attorno al tavolo dodici ore al giorno. Discutono sui giornali, si confrontano con le questioni mondiali, leggono i testi di Gandhi, l’apologia di Socrate.

Don Lorenzo vive il tentativo profondo, vissuto nella carne, di dare la parola a coloro ai quali era stata tolta o negata. Una scuola esigente, aperta 365 giorni l’anno (366 negli anni bisestili), dalle otto del mattino alle sette e mezzo di sera, con una piccola interruzione per mangiare, senza ricreazione e nessun gioco. Solo lo sci d’inverno e d’estate i tuffi, in una piccola piscina costruita dai ragazzi appena fuori la canonica, che oggi visitatori e pellegrini possono vedere.

Cercasi un fine. Bisogna che sia onesto. Grande. Io lo conosco. Il priore me l’ha insegnato da quando avevo 11 anni e ne ringrazio Dio. Ho risparmiato tanto tempo. Ho saputo minuto per minuto perché studiavo. Il fine ultimo è dedicarsi al prossimo. Non è più il tempo delle elemosine, ma delle scelte.

Così si esprimevano i ragazzi nella famosa “Lettera ad una professoressa”. Il sapere serve solo per darlo”, ripeteva spesso don Milani. Contro le tentazioni dell’individualismo e perfino del sapere in sè.

Abbiamo scoperto che amare il sapere può anche essere egoismo. Il priore ci propone un ideale più alto: cercare il sapere solo per usarlo al servizio del prossimo. Per esempio dedicarci all’insegnamento, alla politica, al sindacato, all’apostolato o simili.

Non a caso, coloro che salivano a Barbiana trovavano, appeso al muro della stanza, un cartello con la scritta I CARE, che era il motto, intraducibile, dei giovani americani che si battevano nei campus universitari: “Mi sta a cuore, mi interessa”. L’esatto contrario del “me ne frego” fascista. I CARE.  Da scrivere sulle porte delle nostre case. Sulle porte delle nostre chiese.

Uomo coerente, prete scomodo

Per capire l’avventura umana di don Lorenzo incontro Lella Costa, una delle attrici italiane più stimate e conosciute dal grande pubblico. Lella alterna l’impegno teatrale (l’abbiamo vista recentemente al Donizetti con Human, uno splendido lavoro scritto a quattro mani con Marco Baliani sul dramma delle migrazioni) con rare, ma raffinate apparizioni televisive, indovinate trasmissioni radiofoniche e un costante impegno civile. Recentemente, in alcuni teatri del Nord d’Italia si è prestata a leggere la “Lettera ai Giudici” che don Milani scrisse a propria difesa nel processo per “apologia di reato” intentatogli da alcuni militari. In precedenza don Lorenzo aveva risposto ai “cappellani militari” di Toscana che, nel lontano 1965, definivano “vili” gli obiettori di coscienza (che allora venivano fatti marcire nelle carceri militari di Gaeta o di Peschiera).

Una testimone d’eccezione: Lella Costa

Oggi vanno di moda le letture di poesia o, al più, racconti. “Lettera ai giudici” di don Milani è qualcosa di completamente diverso: perché darne una pubblica interpretazione?

Intanto perché è di don Lorenzo. Quando mi hanno proposto di leggere questo suo testo, non ho esitato neanche un momento, e ho ringraziato dell’onore che mi veniva fatto. Ci sono testi che sono pietre miliari nella coscienza di un Paese, e questo è una di esse: non dovrebbe essere tirato fuori solo agli anniversari.

Chi è stato don Milani per te?

Don Milani era un uomo e un prete scomodo da vivo, e lo è ancora adesso. I suoi testi sembrano scritti adesso, tanto sono vivi. Le sue analisi sono lucidissime, il suo magistero rigoroso: don Milani mette il dito nella piaga, quando insiste sui temi della responsabilità individuale, della coerenza e dell’etica. E lo fa con impeto, con una scrittura chiara, appassionata e trascinante, che sembra risuonare della sua voce. E con questo credo di aver completato la risposta alla domanda di prima: “Lettera ai giudici” si presta quasi più alla lettura pubblica, che alla lettura silenziosa.

Per questo hai citato alcuni passi nel tuo «Stanca di guerra», nel 1996?

Don Milani non si accontenta di enunciare un principio. Quello lo fanno già in troppi. Lui no, ti costringe alla responsabilità e alla coerenza. Le sue parole sulla guerra sono di grande fermezza: anche questo è un grande insegnamento. L’etica non sono le regole o le regolette, ma pochi principi fermi e indisponibili. Mi sembra molto, in un Paese che sbandiera i valori e poi confeziona etiche elastiche e comode, che si possono stiracchiare a piacere. E poi ci sono altri due elementi che rendono don Milani pressoché unico.

Quali?

Il primo è l’assoluta coerenza della sua vita: la sua era una vocazione piena e autentica, senza compromessi, ancora più accesa dalle sue origini ebraiche e borghesi. Il secondo è l’ironia,  che ai miei occhi è impagabile e non solo per motivi professionali: don Milani ne possedeva il dono, il che è raro nella vita pubblica del nostro Paese. E aveva la capacità di unire una grande potenza oratoria a una capacità di sintesi altrettanto grande. Uno così non può che turbare le coscienze.