Adolescenti e TV: una nuova fruizione. I teen drama, ovvero le serie TV rivolte agli adolescenti, rappresentano uno dei generi più popolari del piccolo schermo. Grazie all’universalità delle tematiche – primi amori, vita scolastica, contrasti con i genitori – catturano l’attenzione dei loro giovani telespettatori, trasformando i personaggi in “amici” a cui dare appuntamento in TV.
Oggi, grazie alla TV on demand, ai canali tematici, alle streaming TV e alla diffusione dei formati digitali, la visione rituale è stata soppiantata dalle full immersion: i ragazzi guardano le serie tutte d’un fiato, nell’arco di pochi giorni, finendo per risultarne anche più coinvolti.
Le pause settimanali nella messa in onda, infatti, consentivano di “uscire” dal processo d’identificazione, di staccarsi dall’empatia che nasce naturalmente per personaggi o situazioni, di riprendere fiato dopo un grosso colpo di scena.
Ciononostante, il binge-watching (così si definisce la visione consecutiva di diversi episodi, senza pause) permette al pubblico più giovane di immedesimarsi nei sentimenti dei protagonisti, più che nelle loro vite. Sentendoli ancora più vicini.
Così, serie come Tredici – produzione Netflix arrivata recentemente in Italia – non ottengono solo un larghissimo consenso, ma diventano veri e propri “casi”.
Adolescenti in TV: da Richie Cunningham a Hannah Baker
Giorni felici
Prima che si diffondesse il teen drama, il genere più sfruttato dalla TV era il family drama: si raccontava la vita quotidiana di una famiglia, in cui c’erano sì i problemi adolescenziali del figli, ma anche quelli dei genitori e dei fratelli più grandi.
Happy Days, che negli anni ’70 ricostruiva il sogno americano degli anni ’50, rivoluzionò il genere dando vita a una commedia che dava spazio a ogni fascia d’età e prendeva bonariamente in giro le idiosincrasie della società di allora.
Richie Cunnigham (un giovanissimo Ron Howard), il bravo ragazzo per definizione, viveva avventura quotidiane insieme ai suoi amici, mentre Fonzie (Henry Winkler) dava voce agli outsider e Joanie “Sottiletta” Cunningham (l’attrice Erin Moran, recentemente scomparsa) cresceva sotto i nostri occhi. Una ragazzina normale con problemi adolescenziali normali, come quelli affrontati da tutti. Anche parecchi decenni dopo rispetto all’ambientazione di Happy Days.
La rivoluzione di Beverly Hills
Nel 1990 Aaron Spelling, produttore fra i più potenti di Hollywood, firma il teen drama di Darren Star: Beverly Hills 90210, storia di una famiglia che si trasferisce a Beverly Hills dal Minnesota.
I gemelli liceali protagonisti, Brandon e Brenda Walsh (Jason Priestley e Shannen Doherty), incontrano i ricchi figli della Hollywood che conta, scoprendo che vivono i loro stessi problemi. Anzi: forse ne hanno di più, proprio per la loro posizione privilegiata.
Il bello e dannato – personaggio ricorrente nei teen drama, pensiamo a Ryan Atwood in The O.C. – questa volta si chiama Dylan McKay (Luke Perry) e in un battibaleno diventa l’idolo delle ragazzine di tutto il mondo.
Ma non è questo a fare di BH90210 una serie rivoluzionaria: per la prima volta nella storia, in base agli argomenti trattati (dalla sessualità all’alcolismo, dalla droga alle gravidanze indesiderate, dalla violenza domestica al bullismo), gli episodi terminano con gli attori che comunicano al giovane pubblico i numeri verdi e i riferimenti dei centri di aiuto per i problemi trattati dalla sceneggiatura.
Il teen drama diventa uno strumento di riflessione che propone anche un aiuto concreto, e il fenomeno di culto decolla in men che non si dica.
Dawson e i bravi ragazzi
Fra i molti teen drama prodotti, impossibili da trattare tutti in questa sede, Dawson’s Creek è stato uno dei più fortunati. Ideata e sceneggiata da Kevin Williamson, uno dei giovani autori più prolifici del periodo, la storia di Dawson Leery (James Van Der Beek) racconta le avventure di un bravo ragazzo, che sogna di diventare un regista, in una cittadina di provincia in cui i problemi si tengono ben nascosti (sebbene non siano certo come quelli sommersi a Twin Peaks…).
Il tira e molla sentimentale con l’amica di sempre, Joey Potter (Katie Holmes), l’amicizia fraterna ma anche rivale con Pacey Witter (Joshua Jackson), e l’arrivo della ragazza “difficile” da New York (Michelle Williams nei panni di Jen Lindley) scandiscono la vita quotidiana di Dawson fra scuola, famiglia e sogni nel cassetto.
L’atmosfera “leggera” degli inizi si fa via via più drammatica, e anche Dawson’s Creek affronta tematiche attuali e importanti, dall’omosessualità, alle dipendenze, dal bullismo alla violenza domestica.
Ma l’era dei bravi ragazzi sta per finire: alla porta stanno già bussando Ryan Atwood e i suoi guai.
The O.C.: adolescenti difficili
Benjamin McKenzie conquista la platea femminile del giovane pubblico a cui si rivolge la serie di cui è protagonista, The O.C., creata da Josh Schwartz nel 2003.
Complici una colonna sonora ricchissima di hit, una cura maniacale per scenografie e fotografia, un accurato lancio pubblicitario e un cast che conquista subito il pubblico, The O.C. diventa una serie di culto già all’inizio della prima stagione.
Il ragazzo “difficile” che viene da un quartiere “difficile” e che ha avuto una vita “difficile”, Ryan Atwood (McKenzie), finisce a vivere fra le ville maestose della Orange County ed entra in contatto con la gioventù privilegiata che, guarda un po’, come a Beverly Hills è piena di problemi.
Marissa Cooper (Mischa Barton), che cattura subito l’attenzione di Ryan, ha problemi di alcolismo. Ed è solo l’inizio: fra dipendenze, risse, crimini di vario genere e violenze sessuali, la serie si spinge sempre più verso l’abisso lanciando un monito al proprio, giovane pubblico. Attenti a chi frequentate, attenti alle scelte che fate, siate prudenti, ci dicono gli autori.
Tredici: bullismo contro bullismo
La nuova era del teen drama, dopo le riuscite contaminazioni con fantasy, horror, drama, musical, detective drama e comedy (Buffy, The Vampire Diaries, Friday Night Lights, Glee, Una mamma per amica, Smallville, Veronica Mars…), si chiama Tredici.
Il titolo italiano della serie di Netflix: Thirteen Reasons Why, storia di una liceale che si uccide e che decide di incidere 13 audiocassette per raccontare le ragioni che l’hanno spinta a commettere il più drammatico dei gesti.
La serie, che ha fatto e sta facendo molto discutere, sembra iniziare come la storia di una ragazza normale che subisce atti di bullismo tali da spingerla a pensare di non avere via d’uscita. Episodio dopo episodio, però, emerge la verità: Hannah Baker (una bravissima Katherine Langford) non vuole spiegarsi, cerca vendetta. Risponde al bullismo col peggiore bullismo.
Addossa ai suoi amici, ex amici e compagni di scuola la responsabilità della propria morte, esasperando alcuni loro comportamenti per restituire l’immagine dei giovani di oggi: come tutti gli adolescenti, portati a vivere emozioni forti e che sembrano non finire mai (ma finiscono, lo sappiamo bene noi che ci siamo passati) e soprattutto emozioni filtrate attraverso i social media, i cellulari, le videocamere, le foto e gli smartphone.
La drammatica storia di Hannah Baker è la storia di una ragazzina che dovrebbe chiedere aiuto, ma che pensa che se l’aiuto non arriva è perché la sua vita non ha senso. Il messaggio è chiaro: non aspettare che l’aiuto arrivi per magia, dall’alto. Chiedi aiuto, esplicitamente. Aiutati da solo.
Il tema è molto delicato e complesso, e per non inserire troppe anticipazioni non lo approfondisco eccessivamente.
Sappiate, però, che la serie scava molto più in profondità rispetto a quanto annunciano le sue premesse narrative. E che è emotivamente “dura”: alcune scene sono davvero difficili, e raggiungono lo scopo di far riflettere. Ma dovrebbero, a mio parere, essere rivolte a un pubblico sufficientemente maturo per coglierne il vero senso.
Adatta agli adolescenti a cui si rivolge, dunque, ma non a bambini e ragazzini.