Un curato e gli adolescenti “difficili”. Ecco perché chiudere fuori i «cattivi ragazzi» non è una soluzione

Non è ormai esperienza rara anche nei nostri oratori incontrare ragazzi “difficili”, sempre più caratterizzati dal disagio (nelle sue innumerevoli forme) e dalla violenza! Si badi bene, non voglio dire che i nostri oratori siano il Bronx, ma è sano e ci fa bene uscire anche dall’ingenua concezione dell’oratorio (o della scuola privata, dell’istituzione religiosa) come isola felice dove entra e prospera solo il bene, il giusto, il bello selezionato dei nostri ragazzi. I nostri oratori raccolgono i figli dell’oggi, in tutti i suoi aspetti: i ragazzi buoni, generosi e disponibili, ma anche quelli che portano con sé le fatiche educative, le solitudini, le fragilità familiari e le chiusure e i rifugi nel mondo virtuale… In oratorio non entrano solo quelli del “centro”, ma anche quelli delle “periferie esistenziali”, perché anche loro devono essere attenzionati umanamente, educativamente, cristianamente (anzi, forse loro più degli altri, se proprio vogliamo andare a cercare un po’ di coerenza con quel Cristo che ci dà nome). Dunque capita di vedere violenza anche in oratorio: quella che si mostra nel verbale, nel gusto della sfida ad un mondo adulto che appare sempre più lontano e indifferente; capita di incontrare ragazzi che si organizzano in cricche più o meno raffazzonate per andare in spedizione punitiva a malmenare un ex amico che “Un anno fa ha parlato male di mio padre”; capita di incontrare ragazzi che con “arditezza” (dicono loro) scommettono “Due euro che tu non hai il coraggio di dire al don che è un….”; capita di incontrare adolescenti di costosa scuola privata che si lamentano di una magra Santa Lucia (una moto di soli 8.000 euro anziché dell’attesa di 11.000) e nel frattempo fumano canne e in oratorio vengono per sfidare la tua soglia di pazienza alla bestemmia, allo sberleffo e al gesto vandalico… Capita, già! E che succede poi? Succede che siamo impreparati, spesso, a gestire il conflitto, la rabbia portata dentro e gridata attraverso eccessi che spesso il nostro buon pensiero (buono o buonista?) fatica ad accettare; succede che la miglior soluzione allora è l’isolamento, il chiudere fuori senza capire. Perché non c’è tempo di spendere tempo a cercare di capire, quando sotto sotto un po’ di paura ce la fanno davvero e quando ti immagini già le orde di genitori degli “altri” che vengono a dirti che “certa gente in oratorio non dovrebbe neanche entrare” perché “il luogo per affrontare le fragilità non è questo…”. Noi le fragilità non le amiamo molto (fatte salve quelle nostre, ben celate e travestite) perché ci accorgiamo che ci scomodano parecchio in quanto a coerenza evangelica ed umana del nostro vivere. Almeno a me in questo anno in particolare è capitato proprio questo. Vittorino Andreoli, nel suo libro “L’uomo di vetro (Ed. Rizzoli 2008) scrive: “Si sente dire che l’educazione deve edificare un bambino forte, un uomo di coraggio che affronta le lotte e le vince… La timidezza, invece, va curata e prima ancora nascosta; la paura va dimenticata e sostituita con la potenza e per questo ci si allena a battere un nemico, prima immaginario e poi di carne; e l’abilità sta proprio nel romperlo e non nel venire rotti. La fragilità rifà l’uomo, mentre la potenza lo distrugge, lo riduce a frammenti che si trasformano in polvere”.

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Ecco, di recente mi sono trovato in situazioni difficili dove avvertire la mia fragilità davanti alla violenza mi ha fatto avere paura, mi ha fatto pensare di reagire subito con la rabbia e con la forza oppositiva, difensiva, esclusiva e dissuadente (e ho anche provato a farlo: le telecamere in oratorio, per esempio!), ma dove mi sono accorto che il Vangelo non chiede esattamente questo. Certo, poi subito sorge la fatica di capire dove è il limite tra misericordia e accoglienza da un lato, e rispetto ed educazione dall’altro. E in mezzo alle due tifoserie di adulti che inevitabilmente si schierano, ci sei tu, direttore dell’oratorio (o genitore, o insegnante, o allenatore…), che devi fare i conti con la salvaguardia dell’ambiente educativo e la possibilità dell’ambiente accogliente. Certo, un limite va fissato e non deve essere superato, ma dobbiamo stare attenti a non fare di tutta l’erba un fascio. Certo che vorremmo tutti l’oratorio perfetto, i figli perfetti, la famiglia perfetta, la parrocchia perfetta; ma che cosa significa per noi “perfetto”? “La nostra perfezione è saper accogliere l’imperfezione”: me lo ha detto pochi giorni fa un prete amico e fratello, e da allora non smettono di ronzarmi in testa queste parole. Con i ragazzi difficili (e già qui subito noto come mi è faticoso chiamarli “miei”) ho scoperto come importante il lavorare insieme, non da soli, il fare rete con gli operatori sociali ed educativi del territorio (scuola, sport, assistenti sociali, famiglia quando è possibile, amici…) e soprattutto il cercare di ascoltare. Ma come è faticoso, come costringe ad esporsi, a essere rischiosamente frangibili! A complicare il quadro il fatto di non avere mai una ricetta preconfezionata da applicare, perché ogni storia è storia unica, che come tale richiede risorse e programmi ad hoc. La tentazione è quella di opporre potenza a potenza, senza neanche considerare che invece si tratta di incontro di fragilità, l’educazione, credo! Non ho ancora risolto i miei problemi in oratorio e sto ancora capendo che cosa sia giusto fare; per ora mi sforzo di esserci di più, di mostrare che lo spazio è abitato; e se prima l’intento era “per far capire che qui non si fa quel che si vuole” (giusto, ma parziale), ora è anche per offrire una possibilità di incontro in più. Mentre scrivo e osservo lo scorcio di un bellissimo azzurro post temporale, scorgo anche le nuvolaglie grigie che hanno appena sconvolto per un po’ l’aria; così mi viene da pensare che in paradiso tra un sant’Agostino, un san Giovanni, Maria e Giuseppe, e una schiera di santi e martiri innumerevole ci dovremmo trovare l’adultera, le prostitute e i pubblicani, il ladrone, Zaccheo, Giuda, i crocifissori (almeno stando alle parole consegnateci). Insomma, di quelli che oggi come allora farebbero mormorare a qualcuno: “qui certa gente non dovrebbe esserci”. Non ci dice proprio niente questo?

don Andrea Pirletti, curato di Santa Lucia, città