Anch’io, monaca, ho paura della morte

Foto: un’immagine del film “La morte corre sul fiume” di Charles Laughton

Mi è morto, quasi in braccio, un amico, alla fine di una allegra cena insieme. Sono terribilmente scosso. Tra le tante cose che vorrei chiederti, ti chiedo quella che forse è la più strampalata. Ma tu, che sei monaca, hai paura anche tu della morte? Io ne avevo già prima. Figurati adesso dopo quello che mi è capitato. Guido

Sorella morte

Anch’io ho paura della morte, caro Guido, ma la luce della fede mi aiuta a guardarla con maggior serenità e a riconoscerla, sull’esempio di san Francesco e di molti altri santi, un poco mia “sorella”. Essa, infatti,  è parte della mia “carne” e della mia esperienza terrena. La condivido con quella di tutte le persone che vivono sulla terra. Ma, per la Pasqua del Signore Gesù, è divenuta il passaggio “ultimo” che mi concederà di entrare per sempre nella vera Vita e di godere la comunione con il Signore. Per lui sono ho sempre vissuto e a lui ho consegnato, sin dalla giovinezza, la mia esistenza. Non mi meraviglio, però, dell’angoscia che ti prende, di fronte a questo “appuntamento”. Si tratta, infatti, in modo veramente drammatico e tragico, dell’annientamento della proprio essere.

Dio non ama la morte

La morte, tuttavia, non appartiene al progetto originale di Dio! Egli “non l’ha creata e non gode per la rovina dei viventi, ma ha creato tutto per l’esistenza” (cfr. Sap 1,13-14). Scrive a questo proposito sant’Ambrogio:

A dire il vero, la morte non era insita nella natura, ma divenne connaturale solo dopo. Dio infatti non ha stabilito la morte da principio, ma la diede come rimedio. Fu per la condanna del primo peccato che cominciò la condizione miseranda del genere umano nella fatica continua, fra dolori e avversità. Ma si doveva porre fine a questi mali perché la morte restituisse quello che la vita aveva perduto, altrimenti, senza la grazia, l’immortalità sarebbe stata più di peso che di vantaggio”.

Nel suo aspetto così spaventoso e terribile, essa è esclusivamente conseguenza del nostro peccato. Non solo di quello, cosiddetto, originale, ma di quello personale, nascosto o palese che sia, sperimentato in diverse forme: divisione, distruzione vicendevole, sofferenze inaudite, malattie, guerre, morte.

Gesù e la sua morte

Nel suo amore gratuito e fedele, Dio non ci ha lasciato in balia di questa condanna irreversibile, ma ha voluto liberarci, perché fosse restituita al genere umano la sua vocazione primigenia alla Vita, alla gioia, alla comunione, alla realizzazione. Il Figlio di Dio, infatti, abbracciando la croce del nostro peccato e morendo schiacciato dalle sue conseguenze, ne ha scardinato il suo mortifero dinamismo. In quel modo ci ha restituito, con la sua risurrezione, la libertà e la vita. Per la sua passione, morte e risurrezione infatti, alla morte è stato tolto il pungiglione così che non abbia più potere, secondo quanto afferma san Paolo:

La morte è stata ingoiata per la vittoria. Dov’è, o morte, la tua vittoria? Dov’è, o morte, il tuo pungiglione? Il pungiglione della morte è il peccato e la forza del peccato è la legge. Siano rese grazie a Dio che ci dà la vittoria per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo!” (1Cor 15,55-57).

La vittoria di Cristo sulla morte dona, perciò, speranza alla nostra vita terrena. Nel suo nome, con fiducia e sereno abbandono nelle mani del Padre, tutti noi possiamo affrontare le piccole-grandi “morti quotidiane” come preparazione al “grande passo”. Attraverso di esso potremo entrare per sempre nella vita dove “non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate” (Ap 21,4). Allora godremo  della comunione beata con il Dio della vita, il Dio fedele, che “tergerà ogni lacrima dai nostri occhi” (cfr. ibid).