Quella bambina morta in auto e la valanga di insulti sui social: le tragedie attirano i “leoni da tastiera”

L’ultimo caso è quello di Ilaria Naldini, la donna di Terranuova Bracciolini (Arezzo) che lo scorso 7 giugno ha scordato in auto la figlioletta di 18 mesi, causandone la morte: nell’immediatezza post-notizia, sui social network si sono riversati fiumi di insulti e minacce da parte di quelli che “a me non capiterebbe mai!”, al punto che sia la donna che il marito sono stati costretti a chiudere i profili Facebook.
Non è la prima volta che una tragedia privata – perché di questo si tratta, in primis, di una devastante tragedia che peserà a vita sulla coscienza di quella madre – diventa l’occasione per l’arena social di scatenarsi, di azzannare perfetti sconosciuti nella propria dimensione personale e intima, e ancor di più nel momento del massimo dolore. Se nell’antica Roma il dolore e la sofferenza prendevano la forma di giochi e gladiatori, oggi la situazione non è poi così diversa: scorre sangue virtuale anziché reale, ma l’attacco è ugualmente viscerale, gratuito, cattivo. Non riconosce nell’altro un’alterità: l’altro cessa di essere uomo o donna, madre o padre, persona fragile come ciascuno di noi, e diviene soltanto una proiezione virtuale delle proprie paure. Un ologramma di ciò che non si vorrebbe mai essere, su cui scaricare a peso morto le peggiori parole d’odio, di disprezzo, di accusa. “A me non succederebbe mai!”, “Io non dimenticherei mai mio figlio in auto!”. E poi, attacchi a idee e strutture che nel 2017 si davano ormai per scontate: queste donne che lavorano e non si occupano dei figli, queste donne emancipate che mica si dimenticano di andare in ufficio, se fosse stata a casa con la bimba non sarebbe successo nulla.
È un copione che ormai si ripete ciclicamente: tragedia, ed haters. Tragedia, e accuse. Persone normalissime che, nascoste dallo schermo di un pc o di un cellulare, si trasformano in belve: volgari, saccenti, gonfie di odio, di pancia roboante e accusatoria. Come se non avesse più valore alcuno il regolare corso delle giustizia, i social network diventano gogne, patiboli, stadi entro cui fare a brandelli la reputazione e l’intimità di perfetti sconosciuti. Una gogna vile, però: perché queste persone scannate sui social, non le si vede in faccia, né a loro ci si mostra. Ci si protegge con nomi e icone di un’alterità virtuale percepita quasi come più libera…. E certe cose che a voce non si direbbero mai, sono sdoganate dalla tastiera di un computer.
La legge parla di omicidio colposo? Non importa: per la piazza sei “una madre degenere che ha ucciso il figlio perché troppo presa da se stessa”. Sei stata violentata? Poco conta: per i leoni da tastiera di Facebook “te la sei cercata perché chissà com’eri vestita”. I tuoi video privati vengono diffusi per tutto il web senza il tuo consenso e l’umiliazione ti porta al gesto estremo del suicidio? Chi se ne importa: “Te lo sei meritato!”.
Nessuna pietà. Nessuna comprensione. Nessuna empatia. Esistono solo la propria infallibilità (“io non lo farei mai”, “io saprei cosa fare”, eccetera) e la fallibilità degli altri. Superomismo e disprezzo, accusa e codardia. Diventa sempre più difficile trovare sui social – strumento per certi versi potentissimo, e dalle enormi potenzialità – spazi di confronto costruttivo e reale, che non degenerino in risse virtuali e cori da stadio.
E ogni volta la domanda che sorge è sempre la stessa: possibile che l’umanità sia davvero ridotta a certi livelli di meschinità? L’unica risposta credibile a questa domanda è quella che parla di speranza: la speranza che la vita non corra solo sui social network, e che in realtà qua fuori ci sia molto più rispetto di quanto i social network, spesso, ci diano da pensare.