Quando l’Islam sarà la prima religione del mondo

Il sorpasso. Nel 2100

L’Islam è destinato a diventare la prima religione al mondo per numero di fedeli? Le cifre della demografia e le relative proiezioni statistiche sembrano confermarlo. Al 2050, secondo il Pew Research Center (Usa), i cristiani – che oggi arrivano a circa 2 miliardi e 300 milioni – saranno quasi tre miliardi. I mussulmani – che oggi sono circa 1 miliardo e 900 milioni – saranno 2 miliardi e 700 milioni. Ma verso il 2070 sarà raggiunta la parità, nel 2100 avverrà il sorpasso. Spinti dalla demografia, i mussulmani crescono molto più rapidamente dei cristiani, che invece sono sempre più infecondi.

Il declino del cristianesimo in Europa

La potenza del motore demografico dipende più dai livelli di sviluppo economico-sociale e culturale che dalla fede religiosa, benché, si intende, questa abbia contribuito fortemente a determinare quei livelli. La variabile dello sviluppo non consente pertanto di affidarsi con certezza assoluta alle previsioni. Ciò che invece appare più certo dalle cifre di vari Centri di ricerca è il declino del cristianesimo in Europa. Qui il numero dei non-credenti aumenta ogni giorno che passa. Se si assume come criterio la frequenza della messa, essa si assesta in Italia, Polonia, Irlanda, Slovacchia, Malta attorno al 30%. Negli altri Paesi europei oscilla tra il 15% e il 10%, quale effetto dei profondi processi di secolarizzazione che hanno investito potentemente l’Europa.

Le chiese abbandonate

Restano nelle città e nei nostri borghi, nelle pianure e nelle vallate montane, i monumenti dell’antica fede. Soltanto in Lombardia svettano diecimila campanili, da molti dei quali continua ad arrivare da secoli il suono delle campane, che chiamano alla messa mattutina, all’Ave Maria del tramonto, ai battesimi, ai matrimoni, ai funerali. Il loro suono ha scandito i ritmi della vita delle generazioni passate. Eppure, oggi molti edifici sacri sono chiusi, spesso vengono abbandonati alle intemperie e al vandalismo. Nel Nord-Europa sono stati trasformati, talora, in sedi di mostre, musei e location molto profane. E così molti, credenti o atei devoti, intravedono scenari catastrofici: le chiese trasformate in moschee, i campanili in minareti, dai quali arriva la recitazione minacciosa delle Sure del Corano.

La separazione di potere politico e di potere religioso in Occidente

La causa di tutto ciò? Secondo una vulgata prevalente sarebbe l’immigrazione. Sulle gambe degli immigrati arriva una religione che identifica fede, potere politico, leggi civili e penali. Dall’epoca della lotta per le Investiture, iniziata nel 1059 con il Concilio lateranense, proseguita con energia da papa Gregorio VII con il suo Dictatus Papae del 1075, la Chiesa ha escluso il potere politico dalla nomina dei Vescovi e del Papa. L’accordo definitivo formalizzato nel Concordato di Worms, il 23 settembre 1122, stabilì che l’investitura del potere spirituale, i cui simboli erano l’anello e il pastorale, era riservata alla Chiesa, mentre all’impero spettava l’investitura del potere politico. Se i Papi avevano avuto tentazioni teocratiche e gli Imperatori tentazioni cesaropapiste, la storia europea della Chiesa e degli Stati li ha separati, non senza contraddizioni, involuzioni, sanguinose guerre civili europee.

Nell’Islam il potere è uno solo

Al contrario, l’Islam non ha ancora separato i due poteri, per la semplice ragione che ne esiste uno solo da sempre, quello politico, che piega la religione al proprio uso. L’Islam senza Stato non esiste. La Shari’a è il punto di intersezione tra politica, diritto, codici, religione. Perciò si possono ben comprendere e condividere le paure profonde della società civile europea. Ma è qui che si aprono i dilemmi. L’idea di impedire l’islamizzazione del continente europeo bloccando l’immigrazione è già stata superata dai fatti. Il calo demografico europeo, le dinamiche del mercato del lavoro, le guerre civili in corso nel Medioriente, l’implosione di stati sovrani – dall’Iraq, alla Libia, alla Siria – per colpa anche degli europei, hanno richiamato milioni di immigrati, una minoranza dei quali di fede mussulmana.

Non è colpa dell’immigrazione. È colpa nostra

In Italia, su 5 milioni circa di stranieri, sono grosso modo di fede mussulmana gli Albanesi (468.000), i Marocchini (437.000), gli Egiziani (110.000), i Bangladeshiani 119.000…). Non sono cifre da invasione. Anche se oggi vengono usate per una strategia politico-elettorale della paura. Ciò che è certissimo, invece, è la perdita crescente di autocoscienza storico-culturale degli Italiani. La minaccia alla nostra identità storica viene dall’interno, non da fuori. Si possono efficacemente reprimere i tentativi di praticare clandestinamente la shari’a nei nostri territori, ma la battaglia culturale contro l’identificazione fede e politica non si vince, se si è inconsapevoli della propria storia, delle proprie conquiste laiche e della propria fede, per chi è credente. Non si può operare un’integrazione effettiva nella nostra civilizzazione, se i nostri cittadini e i nostri giovani non ne sono consapevoli e, soprattutto, se non la vivono ogni giorno.

Non basta la paura

Corre anche un’altra strategia di “difesa” dall’Islam. Poichè il Cristianesimo si è secolarizzato, anche l’Islam – così si pensa – conoscerà lo stesso destino, sotto la pressione dello sviluppo tecnico-scientifico, del mercato, dei consumi di massa. Si tratta solo di aspettare in riva al fiume. In realtà, finora, l’integrazione consumistica dei mussulmani ha provocato una reazione tradizionalistica e fondamentalista in una parte di loro e non ha scardinato l’Islam politico. Ma la questione di fondo è che l’integrazione via consumi non è in grado tenere insieme le società, ex-cristiane o ex-mussulmane che siano. La strategia consumista e quella della paura non faranno da argine alla potenziale disintegrazione identitaria di società plurali e multietniche. La costruzione di una piattaforma comune di valori civili non sarà l’effetto né di una pigra giustapposizione di credenze né di un irenismo senza principi. E’ la risultante di una battaglia culturale, a partire dalle proprie radici.