Pescara del Tronto un anno dopo il terremoto. I semi della speranza germogliano anche al buio

Come accade nelle case delle bambole o nelle scenografie teatrali, agli edifici sventrati dal terremoto manca la “quarta parete”. Ciò che c’era di più intimo, di più personale, è esposto agli sguardi dei passanti. Ma non è così importante perché a Pescara del Tronto, un paese piccolissimo, che il terremoto del 24 agosto del 2016, ormai non c’è più nessuno. E’ una “zona rossa” e al suo interno sono ammesse pochissime persone, con permessi speciali. Noi siamo entrati con gli altri giornalisti che partecipavano nei giorni scorsi al Meeting nazionale di Grottammare.

Non si può restare indifferenti di fronte al cumulo di macerie che il terremoto si è lasciato alle spalle: c’era una volta una piccola comunità, un grappolo di case arrampicato nel cuore di una strettissima valle, in un modo inimmaginabile ora, quando ormai la natura si è ripresa la terra, cancellando tutto il resto. Dove c’era la chiesa ora c’è un telone blu. L’unica macchia di colore su uno sfondo grigio.

Il parcogiochi in cima al paese è diventato un luogo di pellegrinaggio: è qui che i vigili del fuoco e i soccorritori hanno deposto i corpi delle 51 vittime, un terzo delle persone che si trovavano in paese quella sera.

Dalle pareti aperte emergono istantanee di vita quotidiana, bloccate in un attimo di disperazione. Ci sono ancora le ante divelte dei mobili, le sedie rovesciate, i tavoli sfondati,  i giochi dei bambini lasciati lì, sul divano, come se dovessero ritrovarli al mattino successivo. E’ facile immaginarsi quel momento fatidico in cui la terra ha incominciato a tremare ed è finito tutto, di colpo. Monsignor Giovanni d’Ercole, vescovo di Ascoli Piceno, è stato tra i primi ad arrivare sul posto dopo il sisma. Ha portato con sé una ventina di giovani frati. Ha distribuito preghiere, abbracci e sorrisi di incoraggiamento, anche quando era più difficile: “L’importante – sottolinea – era essere lì, vicini alla gente”. Un modo per incarnare davvero quell’immagine della Chiesa “ospedale da campo” che Papa Francesco lancia in modo ricorrente.

E’ passato quasi un anno e colpisce vedere le macerie ancora lì, come un monito, a sottolineare con la loro invadenza l’impatto devastante di una natura “matrigna”. Ma come sottolinea monsignor d’Ercole, non è questo il messaggio che i luoghi colpiti dal sisma lanciano al mondo: basta osservare bene, lasciare che lo sguardo superi l’orizzonte, ed eccoli lì, gli abitanti del paese, pronti a salire ogni giorno per testimoniare che non si rassegnano all’abbandono, che sono lì ad aspettare la rinascita, la realizzazione della promessa di un nuovo futuro, e non lo fanno passivamente, ma tirandosi su le maniche e dandosi da fare come possono, anche solo coltivando gli orti rimasti intorno al nucleo abitato. Un segno: i semi della speranza e del coraggio germogliano anche nel buio, anche quando sembra impossibile.