Dalla parte di don Mario Marossi. Dalla parte del Vangelo

Foto: don Mario Marossi, parroco di s. Francesco, Bergamo città

Un oratorio per italiani “da cui cacciare gli stranieri”

Non erano passati due mesi dall’ingresso solenne in parrocchia e fuori dalla chiesa compariva un volantino in cui si rivendicava la “cristianità” dell’oratorio. A detta degli estensori, paladini della civiltà cristiana, questo voleva dire “un luogo per italiani da cui cacciare gli stranieri”. Se la sono presa poi con la bicicletta: bucata prima, rubata dopo.  Non contenti, hanno incendiato più volte  la spazzatura, orinato sulla porta della chiesa e abbandonato i rifiuti davanti alla stessa. Ora la scritta: “Don Mario fuori dal cazzo tu e i tuoi amici negri. Noi di San Francesco”.

Don Mario e la sua chiesa

Questa è l’escalation, preoccupante, che ha coinvolto don Mario Marossi, responsabile da quasi due della parrocchia di San Francesco d’Assisi, una zona di Bergamo vera e propria terra di confine e dunque di incontro. Sin dall’inizio don Mario ha voluto fare della sua parrocchia un laboratorio di integrazione, uno spazio, in nome del Vangelo, capace di custodire la sfida a cui tutti, in un futuro più prossimo di quanto immaginiamo, saremo chiamati: la convivialità delle differenze.

Per questo, don Mario (un lungo passato di missionario in Bolivia e responsabile da anni della Missione di Santa Rosa da Lima, in via san Lazzaro, in centro città) accanto alla pastorale tradizionale ha voluto che la parrocchia di San Francesco potesse essere una “terra di mezzo”,  luogo di incontro: latinoamericani e africani, mussulmani (nel suo territorio vi sta anche la moschea di via Cenisio) e zingari. Don Mario ne è convinto: “Solo la conoscenza abbatte i muri. Servono iniziative semplici per costruire il futuro”.

Ne sono convinti anche moltissimi parrocchiani (alla faccia del “noi di San Francesco”) che in questi giorni in tanti modi gli hanno mostrato vicinanza e solidarietà.

I “cristiani annacquati” di Papa Francesco

È la solita storia. Anche, e sempre più, nella nostra terra bergamasca. Finché i cristiani si limitano ad appelli generici e scontati, tentando di stare faticosamente a galla dentro una pastorale del buon senso (di chi?), tutto va bene. Quando si cerca di tradurre il Vangelo dentro scelte precise nascono i problemi.

È triste trovare cristiani annacquati, che sembrano vino allungato e non si sa se sono cristiani o annacquati. Come il vino annacquato, che non si sa se è vino o acqua. Se il sale diventa scipito non serve più a nulla. Il “sale” dei cristiani annacquati ha perso il suo sapore e sono diventati mondani.

Cosi papa Francesco (uno che di contestazioni si intende) in un Angelus di qualche tempo fa.

Insomma, la Chiesa sarà credibile da come i cristiani agiscono. In fondo, la storia è la grande basilica dove Dio ha lasciato le tracce e dopo l’incarnazione le vicende degli uomini, di tutti gli uomini, sono il luogo privilegiato per raccontare (o tacere) la fedeltà alla vicenda cristiana.

Tra i simboli della Chiesa non si è mai trovato il camaleonte

Solidarietà piena nei confronti di don Mario e della sua comunità. Ma anche invito a ciascun credente a non sottrarsi dalla fatica del discernimento del presente alla luce del Vangelo. E di tentare, anche muovendosi controcorrente, di tradurre il Vangelo con coraggio. In fondo, ripeteva spesso Kaj Munk, uno dei principali ispiratori delle resistenza pacifica del popolo danese contro il nazismo, assassinato la sera del 4 gennaio 1944 da  un commando delle SS che lo fucilò in aperta campagna, abbandonando per strada il suo corpo senza vita,  “i simboli della chiesa cristiana sono sempre stati il leone, l’agnello, la colomba e il pesce, mai il camaleonte.”