La legge non ammette ignoranza, il web la reclama. I social come generatore di rabbia

La legge non ammette ignoranza, il web la reclama.

Chissà cosa ne avrebbe pensato Umberto Eco dopo l’ammissione di mancato amore nei confronti degli assidui frequentatori dei social.

Il fatto è che facendo un giro sui blog, sui forum d’assistenza, nei commenti alle news, su facebook e sugli altri social network, ne esce un desolante panorama di astioso rancore. Perché il web, bello e brutto per l’assoluta mancanza di limitazioni geografiche, linguistiche e culturali, è un ambiente che per definizione unisce il meglio del meglio al peggio del peggio, passando gradino per gradino per ogni loro variante cromatica.

È sufficiente una virgola al posto sbagliato per aizzare i grammar Nazi, la foto di un cane che corre per essere accusati di maltrattamenti, quella di un vestito per essere tacciati di consumismo. Così il messaggio di felicità per un nuovo impiego solleva l’indignazione dei disoccupati, e una lamentela per un colloquio andato male suscita le ire di chi accusa i giovani d’essere choosy -forneriana sfortunata memoria-.

E non ci si ferma all’ostilità personale. Si è obbligati al confronto-scontro con il branco, secondo una dinamica animalesca ove il legame per contrasto a qualcosa è più forte di quello per passione verso qualcosa.

Così la rabbia si autoalimenta e si esaspera, perdendo di vista il punto iniziale: ogni screzio diventa una rissa, ogni parola un insulto, ogni commento una fucina di cattiverie che coinvolge tutti: diretti interessati, addetti ai lavori e tuttologi casuali, che confondono la facilità di accesso alle informazioni con la loro veridicità e sentono  – e non riesco a non chiedermi il perché – l’impellente bisogno di dire la loro, di giudicare.

Dando voce a tutti, la rete ha perso il valore del silenzio, e verrebbe voglia di urlarlo forte: stiamo zitti, a caratteri maiuscoli. Perché avevano ragione i nostri nonni e i nostri genitori quando ci dicevano di contare fino a cento prima di aprire bocca. E allora prima di digitare sulla tastiera contiamo fino a mille, perché a un messaggio non condiviso o a una notizia irritante si dovrebbe rispondere solo ed esclusivamente con il silenzio. Non vi piace l’articolo? Cambiate canale, come fosse la televisione. Non c’è bisogno di un commento acido, di una cattiveria gratuita o di un insulto mascherato da metafora.

Tanto più per il fatto che di persona non siamo così. La nostra personalità digitale si è staccata dalla reale: persone miti commentano in modo aspro un articolo innocuo, come valvola di sfogo alla sensazione d’essere repressi, al mito che la libertà d’espressione porti con sé la libertà di insulto.

Ecco, non è così. Lasciate regnare le norme della buona eduzione che filtra i pensieri e le azioni, come un colino per il brodo: nella vita, virtuale inclusa, lasciate passare solo le cose fini.