I giovani e il Vangelo ai tempi dello smartphone. L’educazione è un’esperienza di comunità

Il Sinodo dei giovani diventa anche nella nostra diocesi occasione di riflessione e di ripensamento per tutti, a partire dai preti. Qual è oggi il modo migliore per un’azione pastorale efficace diretta ai giovani nelle comunità e quale dev’essere il ruolo dei sacerdoti? Riportiamo una sintesi con ampi stralci della riflessione proposta da don Michele Falabretti, responsabile del Servizio nazionale di pastorale giovanile, all’assemblea del clero, a nostro parere molto interessante anche per i “non addetti ai lavori”. Il testo integrale si può scaricare dal sito della diocesi.

Prima di tutto la formazione: don Michele ripercorre la vita “strutturata e ordinata” degli studenti del Seminario, rimarcando la profonda differenza che esiste tra l’educazione ricevuta più in generale dai genitori, educatori, insegnanti, sacerdoti e i giovani di oggi.
“Una cosa è sicura: crescere in un ambiente così ordinato e strutturato come quello del Seminario, è capitato a noi. La vita di un giovane segna una distanza siderale (…). Forse condividerà con il tempo della nostra giovinezza le levate all’alba: ma per prendere un treno, per raggiungere università o lavoro, cominciando presto a sgomitare sperando in un posto per sedersi…(…)
La distanza tra la nostra formazione e quella dei giovani di oggi è un dato di cui tenere seriamente conto. Da una parte, alle nostre spalle ci sono generazioni poco acculturate: all’inizio degli anni ’80 (ancora) non era infrequente che si lasciasse la scuola per il lavoro dopo le medie. Nell’arco di trent’anni, la gran parte dei giovani arriva a iniziare un percorso universitario, ma nello stesso tempo i linguaggi comunicativi sono radicalmente cambiati: da uno spazio occupato da parole (scritte o parlate), si è passati a una varietà di linguaggi capaci di veicolare i concetti attraverso una tecnologia fatta (perlopiù) di immagini e suoni che tendono a colpire soprattutto il mondo emotivo; dal quale, solo in seconda battuta, nascono domande di approfondimento e di senso.

L’EDUCAZIONE COME ESPERIENZA DI COMUNITA’

“È chiaro a tutti – osserva don Michele – quanto questo ci metta in difficoltà. In realtà non è niente di nuovo: già nel passato la storia ha vissuto momenti di rapida transizione e di cambiamenti epocali (citiamo solo la Torino di don Bosco nel pieno della rivoluzione industriale e della nascita dell’Italia unita). In quei momenti la Chiesa ci ha consegnato la luminosa testimonianza di molti Santi che, in nome della carità, si sono dedicati all’educazione creando contesti di relazione. Per loro, che sono dei maestri, l’educazione non si è mai ridotta a una “spiegazione” di contenuti, ma piuttosto si è tradotta in una esperienza di comunità. Tracciato un perimetro esperienziale all’insegna di spazi e tempi di vita comune, si sono dati con pazienza all’accompagnamento dei più giovani. Questo è interessante, perché riporta il ministero del prete là dove deve essere: dentro un legame profondo con il Signore che lo manda e – contemporaneamente – dentro una dinamica di comunità che prova a fare esperienza di una vita fraterna.
Se “stare con i giovani” significasse tornare ad essere tardoadolescenti, finiremmo tutti per essere ridicoli: un adulto che ha paura di diventare grande, induce alla compassione; e questo vale anche per un prete. Ma se in nome dell’ “io devo predicare il vangelo”, un prete abbandona i giovani al proprio destino come naufraghi in mezzo al mare, allora vedo alzarsi la bandiera bianca di chi abdica al proprio compito solo perché lo ritiene troppo faticoso.
Educare è parte del ministero e dunque di un mandato che abbiamo ricevuto quando abbiamo accettato di prenderci cura del popolo di Dio. Ci è capitata la sorte di entrare nel ministero e nella comunità da presbiteri (che di per sé vorrebbe dire anziani), dunque con un compito che già presuppone una certa maturità. In realtà siamo stati tutti novelli, poi siamo diventati preti giovani; e finalmente veniamo definiti, semplicemente, preti.
In questo percorso, ciascuno di noi ha dovuto e deve fare la fatica di trovare il punto di riferimento per la propria maturazione e per il proprio percorso di vita: in caso contrario, è davvero difficile diventare guide per gli altri, soprattutto per i giovani che oggi hanno le antenne per sentire (subito) se c’è un cuore che ascolta e accoglie. È solo a questa condizione che accettano di essere guidati”.

IL PESSIMISMO E’ UN MURO

La sociologia religiosa è in allarme: i toni del grigio sembrano prevalere fra i capelli delle persone che frequentano i banchi della messa domenicale; senza bisogno di andare troppo lontano, basta sfogliare i registri di battesimi e matrimoni, comunioni e cresime per scoprire che la domanda sacramentale manda segnali di ridimensionamento.
Una reazione abbastanza evidente (e forse paradossale) è quella di una sorta di depressione serpeggiante (che porta alla sfiducia in qualunque azione pastorale) oppure a una forma di risentimento (che porta forme di vita personale talvolta discutibili). Anche l’esperienza di stare in mezzo agli uomini con la forma della parrocchia, rischia di essere oggetto di ripensamento: cresce la predilezione per modelli di tipo più identitario.
In un clima del genere, si capisce come mai la cura delle nuove generazioni appare come un accessorio per addetti ai lavori. La capacità di intercettare i giovani viene riconosciuta a chi è più capace di strategie pirotecniche, a chi possiede capacità istrioniche che possano tenere il più a lungo possibile un’attenzione altrimenti destinata a sciogliersi.
Chi non sente di avere queste capacità o (più ragionevolmente) non le ritiene essenziali per l’educazione cristiana, finisce per provare una sorta di fastidio. Esso nasce quando si vuole parlare di giovani solo in termini positivi, come se la giovinezza fosse qualcosa verso la quale è necessario provare solo simpatia, tralasciando qualunque forma di critica.
Va detto con chiarezza: nella vita essere giovani è una condizione da cui si guarisce in fretta. E i giovani non hanno sempre e tutte le ragioni. Essi sono (anche) una fonte seria di preoccupazione: quando ostinatamente si mettono sulle tracce di ciò a cui si concedono solo per istinto; quando si lasciano andare alla prima cosa che salta loro in testa; quando non tengono in nessun conto il bisogno di tenacia per mettere le gambe ai propri sogni.
Ma è proprio in quei momenti che la figura del prete che accompagna diventa una risorsa…

IL PRIMO PASSO E’ ASCOLTARE

“La ricerca curata dall’Istituto Toniolo, Dio a modo mio (2015), ha indagato il rapporto che i giovani hanno con i preti. Ne sono venute fuori una serie di osservazioni interessanti.
I preti, nella vita dei giovani oggi, non sono più un riferimento immediato e costante: il rapporto che i giovani dichiarano di avere con loro è controverso. Da una parte, infatti, è cresciuta una certa confidenza e un certo legame rispetto al passato. Dall’altra (però) i preti non sono più le figure di riferimento principali: se i giovani stanno vivendo qualcosa di importante (bello o brutto che sia) non si rivolgono a loro in prima battuta.
Pur non essendo figure rilevanti per la loro crescita umana e cristiana, i giovani non si lasciano sfuggire l’occasione di dire qualcosa sui preti: lo spettro delle opinioni è amplissimo e in certa misura ambivalente. La percezione generale potrebbe stare nella definizione di una benevola indifferenza.
Emergono agli occhi dei giovani gli elementi della vita del prete che per loro rappresentano delle privazioni: la famiglia, la vita sessuale, il lavoro, i soldi. Mentre dichiarano di poter fare tranquillamente a meno della loro presenza, i giovani ritengono inimmaginabile l’ipotesi di una Chiesa senza preti. Eppure li sentono lontani esattamente come tutte le istituzioni: i preti faticano ad affrancarsi dal ruolo istituzionale e acquistare un volto amico: i giovani non mostrano alcuna stima per i funzionari; sono alla ricerca di compagni di viaggio.
Viene in mente una frase di Giovanni XXIII:
La gioventù cerca un cuore che capisca, più che una luce che illumini.
La scelta di un giovane di farsi prete, suscita domande ammirate: ne vengono riconosciute bellezza e fascino, anche se la stessa scelta sembra impossibile da fare propria; insomma una vita inarrivabile. Non tanto per la faticosa continuità che la vocazione richiede, quanto per la coerenza ai principi che un prete professa:
La loro è una scelta molto coraggiosa, e questo è indubbio ed innegabile. Bisogna vedere se è dettata o meno da vocazione. Credo che i preti ricevano un dono, quelli però meno capaci di adempiere ai loro compiti, sono quelli che non sono preti per vocazione. (Dio a modo mio, cit. p.108)
Il celibato ecclesiastico è un aspetto controverso: visto perlopiù come un’imposizione, essi faticano ad assegnargli un significato mistico di comunione con Dio.
La povertà è considerata una cartina di tornasole della fedeltà al vangelo: normalmente il clero non sfugge al giudizio negativo sul fatto che possieda molti beni. Ovviamente ricuperano il missionario e il prete di frontiera: questo è il pertugio che porta i giovani a riconoscere che non è tanto avere delle ricchezze, la questione. È sulla sobrietà e nell’uso dei beni, la semplicità di vita e la vicinanza alle sofferenze delle persone che si gioca il criterio di giudizio.
Il prete che vorrei: alla fine, i giovani provano a fare delle richieste; per loro esistono dimensioni che tratteggiano una immagine positiva di prete. La prima è la categoria della vicinanza: uno che si fa vicino e sa ascoltare i problemi della gente; solo così può diventare una guida che accompagna il cammino. Perché il prete possa diventare un consigliere sapiente, deve comprendere senza giudicare, indicare la strada senza imporla: la fede passa attraverso la sua testimonianza di vita, che sa comporre divisioni e gelosie.
La Parola di Dio va avvicinata attraverso una spiegazione viva e attuale. Che non significa sempre un giovanilismo a oltranza. I giovani sanno riconoscere la giovinezza nello spirito e vedono in molti preti anziani più apertura che in quelli giovani che si irrigidiscono nelle forme (di tutti i tipi, antiche e nuove). Anche qui emerge l’immagine positiva e rassicurante della fede dei nonni…

COME UNA COMUNITA’ PUO’ GENERARE UNA VITA DI FEDE

Il tema centrale del Sinodo ci rimanda ad alcune questioni che abbiamo sempre avvertito come decisive: su tutte, la capacità generativa della comunità cristiana a una vita di fede. A seguire, in stretta connessione, la capacità di coinvolgimento delle diverse attività pastorali: la dimensione liturgica (non più percepita dai giovani come necessaria nella sua cadenza settimanale e non sempre capace di fondare in loro un ascolto e un dialogo fecondo con il Signore); quella della catechesi (ormai relegata al solo tempo della iniziazione cristiana o in occasione di eventi particolari); quella di una partecipazione viva alla vita della comunità. Quando la trasmissione intergenerazionale sembra incepparsi, le domande si fanno più urgenti.
Le nostre comunità infatti non riescono più a «produrre» cristiani adulti. Manca la capacità di generare il credente adulto, in grado di non sprofondare nell’ansia o nel risentimento di fronte alla fatica di rielaborare l’immaginario religioso ricevuto.
I giovani sanno farsi coinvolgere se si sentono davvero ingaggiati, se sentono di poter dire la loro. Dunque se percepiscono che la vera posta in gioco è quella dell’umano, della loro stessa esistenza. Come fa oggi un giovane a diventare grande, a cimentarsi nell’impresa che è la sua vita, il mondo, le relazioni…? Noi dovremmo essere preoccupati del fatto che i giovani non vedono che il vangelo è tale (notizia buona) perché nella vicenda di quell’uomo, Gesù di Nazareth, c’è di mezzo la maniera di stare al mondo.
La vita stessa contiene l’appello alla fede: verso i genitori, verso gli amici, verso chiunque si incontri nel proprio cammino; e alla fine la vita (attraverso le sue vicende) chiama ad andare “oltre l’altro”. Insomma: senza fede nessuno può aderire alla vita. Abbiamo bisogno, anche noi preti, di tornare a credere che questo accade nel cuore dell’uomo di oggi; accade nei giovani di oggi. Anche se hanno un modo diverso di entrare in contatto con la realtà e l’esistenza.
Il loro modo di entrare in contatto con la realtà e l’esistenza è profondamente cambiato. L’esempio più interessante viene dallo strumento che tutti loro (ma anche noi) portiamo in tasca: lo smartphone. Chi lo acquista riceve una piccola scatola con pochi componenti che servono al funzionamento. Uno strumento complicatissimo non contiene più un lungo e noioso libretto di istruzioni; ma un piccolo foglietto con poche (e in quel momento inutili) raccomandazioni. Come si usa? Si impara: ognuno deve arrangiarsi provando e riprovando. Al massimo si può chiedere a chi ne sa qualcosa. È un “gioco” interessante che abbiamo bisogno di osservare con attenzione per capire che le giovani generazioni non accettano più nulla “a scatola chiusa”. E per rilevare che i giovani sanno farsi coinvolgere se si sentono “davvero” ingaggiati, se sentono di poter dire la loro.
È tempo di liberarsi dalla convinzione che possa bastare semplicemente trovare nuove forme di annuncio, senza riprendere l’arte di suscitare domande: i giovani definiscono “dogmatiche” le verità che non hanno evidenza nella vita di chi le offre; e dogmatiche, per loro, non è un aggettivo positivo. Significa che prima di tutto vogliono vedere una corrispondenza fra ciò che gli educatori cristiani offrono loro e la vita degli stessi adulti. L’umanesimo evangelico – per come lo si potrebbe interpretare nella sua fraternità e nella sua dimensione di dono-dedizione senza condizioni – è l’unica forza in grado di superare l’individualismo che serpeggia anche fra i cristiani. Noi vorremmo che i giovani partissero dalle domande esistenziali: Chi sei? o Chi sono? Forse sarebbe più produttivo che si chiedesse loro: Per chi sei? Per chi voglio essere? Perché giocare sulla destinazione della identità, costruisce l’identità stessa.
Molti segnali oggi ci dicono della fatica dei giovani a recepire senza verificare: significa che vogliono capire attraverso azioni ed esperienze che li sorprendano. Significa che non accettano che si pretenda una loro adesione di fronte alle nostre evidenze: la ricerca sarà comunque personale; alle parole ascoltate seguiranno “verifiche” attraverso ricerche su internet, incrociando informazioni e opinioni che verranno dai mondi più disparati.
Il risultato della nostra difficoltà a capire il mondo di oggi, è il moralismo che spesso rischia di caratterizzare anche la predicazione ecclesiastica. Spesso ci si limita a proclamare i valori senza prendere in considerazione l’uomo e la sua esperienza effettiva, senza indicare come i valori possano essere voluti e incarnati. È facile ascoltare nelle prediche la ricorrente denuncia della separazione che c’è tra fede e vita; più difficile sentire illustrare concretamente il significato quotidiano del vangelo e la sua praticabilità. Perché il vangelo possa parlare alla storia è necessaria l’esistenza di una comunità. La testimonianza credente può darsi nel mondo solo grazie a una comunità di uomini e di donne che danno alla loro vita la forma del vangelo: questa è la posta in gioco della presenza dei cristiani nel mondo. Insomma: mostrare, più che dimostrare.