Attraversare il Muro di separazione che divide Gerusalemme da Betlemme è un’esperienza che lascia il segno. Chilometri di barriera, alta fino a otto metri, nata – secondo l’intenzione israeliana – con lo scopo – raggiunto, peraltro – di impedire l’accesso di uomini e donne disposti a farsi saltare in aria in attentati kamikaze.
In pratica, il Muro divide due mondi, due popoli, due culture, che, fino a poco tempo fa, cercavano di convivere pur nelle loro differenze. Lungo più di settecento chilometri, il muro ingloba la maggior parte delle colonie israeliane e la quasi totalità dei pozzi. Esso si discosta in certi posti a più di 28 chilometri dalla linea verde, il confine precedente la guerra dei Sei Giorni del 1967. Il suo tracciato è stato modificato decine di volte, su domanda dei palestinesi, degli europei e della Corte Suprema di Giustizia israeliana.
Chi lo sostiene ricorda il numero di vite salvate, chi lo osteggia sottolinea i problemi e la mancanza di libertà di movimento che essa comporta, la perdita dell’accesso alle terre coltivate da parte degli agricoltori, l’isolamento di certi villaggi, il sentimento d’imprigionamento, e la paura che essa rappresenti di fatto una futura frontiera di cui rifiutano il tracciato.
Quasi subito dopo l’ingresso a Betlemme, a pochi decine di metri dal quel muro che taglia in due la città della Natività, si trova il Caritas Baby Hospital, l’unico ospedale pediatrico di tutta la Palestina. Un’oasi di speranza e di serenità. Che ha accettato la sfida e l’impegno – incredibili in quel fazzoletto di terra martoriata – di curare tutti i bambini, che siano israeliani o palestinesi, cristiani, ebrei.
Per capire il valore e l’originalità di questo ospedale, ho incontratro recentemente suor Lucia Corradin, francescana elisabettiana, cresciuta a Mason Vicentino, presente a Betlemme dal 2002.
Quando è nato l’Ospedale e quali furono i motivi che spinsero alla sua realizzazione?
Amiamo dire che il Caritas Baby Hospital è nato da un atto d’amore. Da una ispirazione venuta a un sacerdote svizzero, padre Ernst Schnydrig. Nel dicembre del 1952, padre Ernst era in pellegrinaggio a Betlemme con un gruppo di amici. E la notte di quel Natale, mentre, al suono festoso delle campane si avviava verso la Basilica per la messa, si trovò di fronte a una scena sconvolgente. Dietro a una tenda di profughi, un giovane uomo, con il viso sconvolto dal pianto, stava scavando una fossa nel fango. Padre Ernst si avvicinò e seppe che quell’uomo stava seppellendo il proprio bambino, morto di freddo e di fame.
Quella tragedia contrastava tremendamente con l’aria di festa della notte di Natale. Padre Ernst, impietrito, non riusciva a capacitarsi che un dramma del genere potesse accadere proprio a Betlemme. E mentre guardava quell’uomo intento alla sepoltura, sentì dentro di sé un richiamo, un impulso: dedicare la sua vita per cercare di impedire che simili tragedie si ripetessero a Betlemme. Nei giorni successivi parlò con i suoi amici e cominciò subito a realizzare il suo progetto: creare una struttura ospedaliera per i bambini bisognosi di cure.
Prese in affitto due stanze. Poi si mise a cercare nei villaggi bambini poveri e ammalati. Ne trovò quattordici, in cattive condizioni e li fece ricoverare in quelle stanze. Chiese e ottenne la disponibilità di un medico palestinese che assieme ad una volontaria svizzera si prese cura dei piccoli. Nacque così il primo nucleo del futuro ospedale. In seguito, quelle due stanze divennero quattro, poi dieci, poi quindici e nel 1978 ci fu la costruzione e l’inaugurazione dell’ospedale che venne chiamato “Caritas Baby Hospital”. Oggi la struttura può accogliere ottantadue bambini distribuiti in quattro reparti: due di pediatria, uno di terapia intensiva e uno di neonatologia.
Aiutaci a capire come il Muro ha cambiato la vita dei palestinesi
Ancora più prima del Muro credo che l’occupazione abbia, in qualche modo, danneggiato la situazione sanitaria. L’occupazione non è soltanto il Muro. Sono anche i check point, le torrette dei controlli, gli ammassi di terra che bloccano la strada e ti obbligano a farne molta di più di quella prevista. Sono i fili spinati che ti dicono che quella strada è percorribile solo dagli israeliani; sono gli insediamenti occupati da ebrei, è l’acqua che manca.
Quante volte i nostri colleghi qui all’ospedale dicono che si spostano con le macchine per fare le lavatrici dai parenti o vanno dagli amici per farsi una doccia o, visto che spesso l’acqua c’è solo due giorni al mese, la comperano. Occupazione è l’impossibilità di movimento e di libertà all’interno del proprio territorio. Tutto questo, combinato al fatto che la struttura delle famiglie arabe è ancora strutturata secondo il modello del clan, fa sì che la possibilità concreta di sposare una ragazza sia sempre più bassa. Dunque aumentano i matrimoni tra consanguinei che comportano, tra l’altro, l’incremento di patologie congenite.
L’abbiamo visto qui al Caritas: un incremento tre volte maggiore rispetto a quindici anni fa. I bambini hanno quindi le comuni malattie dei bambini italiani ma aggiungono patologie congenite che colpiscono soprattutto gli organi vitali: il cuore, i polmoni, il metabolismo intestinale e, in questi ultimi cinque/sei anni, le patologie neurologiche: convulsioni, paralisi…
Hai detto che da voi non c’è la cardiologia pediatrica. Quando questa è assolutamente necessaria per salvare la vita di un bambino cosa fate?
Abbiamo costruito ponti con medici e ospedali israeliani. Si parla spesso di muri e di contrapposizioni: noi possiamo parlare anche di collaborazione e di condivisione. Certo, non è facile. A volte ci appaiono ponti fragili però ci sono. Abbiamo scelto Israele perché nostro vicino di casa. Non dimenticare che tra Betlemme e Gerusalemme vi sono solo otto chilometri e in Israele ci sono tutte le specializzazione, spesso all’avanguardia.
Ovviamente Israele pone delle condizioni perché questi trasferimenti avvengano. A volte c’è il rifiuto dei casi più gravi perché gli ospedali non vogliono innalzare il tasso di mortalità. Poi considera che in Israele tutti gli ospedali sono privati. Un palestinese, essendo straniero, non gode di nessuna assicurazione sanitaria e i costi delle prestazioni sanitarie sono elevati, non sempre sostenibili.
C’è poi un’altra difficoltà, per noi difficile da capire. La cosiddetta “punizione collettiva”. Un bambino può aver ricevuto il posto letto nella struttura sanitaria israeliana ma se da un controllo si evince che un parente, anche lontano, magari mai visto – tieni presente la struttura del clan che ti dicevo prima – è stato complice di un gesto contro Israele, il permesso viene revocato. Infine, serve un’autoambulanza israeliana che accompagni il bambino dal check point all’ospedale. Prova a mettere insieme tutto questo e comprendi quanto sia complicato. A volte le cose sono andate a buon esito altre volte i bambini non ce l’hanno fatta, neanche ad arrivare alla struttura sanitaria.
We are here: noi siamo qui. È il motto del Caritas Baby Hospital. Cosa vuol dire?
Vuol dire che siamo qui per i bambini e per le mamme. Tenacemente a loro fianco, nonostante tutte le difficoltà. Siamo qui con i quattordicimila bambini, cristiani e mussulmani senza distinzione, che vengono ogni anno ricoverati e con i quarantamila che vengono visitati nei diversi ambulatori. Siamo qui per ogni bimbo che bussa alla nostra porta e trova sempre, 24 ore su 24, una risposta.
Nessuna delle famiglie che arriva al Caritas Baby Hospital vive l’esperienza della famiglia di Nazareth che “non ha trovato posto”. Siamo qui con la nostra struttura che è all’avanguardia. Medici e personale specializzato: 230 dipendenti, tra mussulmani e cristiani, per i quali la differenza di fede non è mai un ostacolo.
Come si mantiene un ospedale come questo?
Te lo dico sinceramente: con la Provvidenza. Alle famiglie dei bambini ricoverati chiediamo un contributo simbolico per l’ospedalizzazione ma questa cifra non copre neanche il 10% delle spese totali. E la Provvidenza ha tanti volti: le Caritas svizzere e tedesche con la raccolta fatta in Avvento, i pellegrini che giungono a trovarci, le tante associazioni e gli amici che da tutto il mondo fanno giungere la loro concreta solidarietà, le coppie e le famiglie che devolvono a noi quanto raccolto durante le feste di matrimonio o di battesimo.
Questa strana economia è anche un modo per rimanere liberi. In Palestina i cristiani sono meno dell’uno e mezzo per cento e noi vogliamo garantire la massima qualità sanitaria nel rispetto dei valori fondanti dell’opera, senza ingerenze o compromessi. Lo ha voluto sin dall’inizio il nostro fondatore convinto che ce l’avremmo fatta e, fino ad ora, ha avuto sempre ragione.
Cosa ti insegnano i bambini che incontri ogni giorno in reparto?
A non temere la nostra umanità, a farla emergere. A fare conti con la vita e con la morte. C’è un’unica domanda che è di tutti i bambini, cristiani o mussulmani che siano: se – anche noi suore – temiamo la morte o se questa è un passaggio naturale che prima o poi raggiunge ciascuno. E se c’è qualcosa di bello dopo questa vita. Ho visto tanti bambini morire e la morte resta per me un grande mistero. Ho imparato da loro però che vale sempre la pena dare la nostra umanità fino in fondo. Perché qui e adesso vi sia quella cura, quella vicinanza e quella tenerezza che ci auguriamo essere la vita eterna futura. Attraverso la nostra umanità sia possibile gustare già oggi quella che sarà la nostra speranza di domani.
Da noi molti conoscono il vostro appuntamento del venerdì pomeriggio..
Sì, noi suore elisabettine ogni venerdì, verso le 17,30, andiamo a pregare il rosario al Muro. È un’iniziativa nata subito dopo la sua costruzione, avvenuta il primo marzo del 2004. Di fronte a questa ingiustizia ci siamo chieste cosa potevamo fare. E la risposta è stata questa: chiedere a Maria, colei che è madre di tutta l’umanità e che non fa distinzione di razza e di religione, il dono della pace. Quella pace che ci impedisce, anzitutto, di costruire muri tra noi. Quella pace che permetterà un giorno di non vedere più muri, da nessuna parte.