A proposito di referendum di Lombardia e Veneto

Roberto Maroni, governatore della Lombardia

Il quesito referendario, cui la Regione Lombardia chiama gli elettori domenica prossima, non pare affatto eversivo: “Volete voi che la Regione Lombardia, in considerazione della sua specialità, nel quadro dell’unità nazionale, intraprenda le iniziative istituzionali necessarie per richiedere allo Stato l’attribuzione di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, con le relative risorse, ai sensi e per gli effetti di cui all’articolo 116, terzo comma, della Costituzione e con riferimento a ogni materia legislativa per cui tale procedimento sia ammesso in base all’articolo richiamato?”.

In sostanza, la domanda è: se alcune Regioni godono di Statuti speciali, pur essendone venute meno le ragioni storiche, – né la Valle d’Aosta né il Friuli né la Sardegna, né la Sicilia hanno più voglia di andare oltre i confini; quanto all’Alto-Adige, che sarebbe più corretto chiamare Sud-Tirolo, resta l’unico aver diritto ad un trattamento speciale – perché la Regione Lombardia, che pure è realmente “speciale”, non è oggi nelle condizioni istituzionali di esercitare un’autonomia fiscale effettiva?

Al riguardo, Maroni è stato accusato di cripto-secessionismo, di propagandismo elettorale, di spreco di danaro e di pigrizia contrattuale nei confronti del governo. Non che sull’autonomia fiscale l’opposizione in Regione abbia fatto fuoco e fiamme e neppure il Governo. A queste accuse e alle controaccuse sono molto sensibili i ceti politici.

Il non governo di alcune Regioni e un po’ di storia per capire

Ma tutti sfuggono alla domanda, che sta alle spalle di quella referendaria: a che punto è il tramonto delle Regioni? Sì, perchè, accanto a qualche Regione del Nord relativamente virtuosa sta la maggioranza di quelle fondate sull’inefficienza, sul clientelismo sfacciato, sullo spreco e, talora, sulla corruzione: insomma sul non-governo. La struttura regionale siciliana, con una popolazione che è la metà esatta di quella lombarda, spende più di mezzo miliardo di euro, quella lombarda solo 62 milioni, 56,3 milioni il Veneto, ma 139 milioni la Campania, 128 milioni la Sardegna. Agli emiliani ogni consigliere costa 7,7 euro annui contro i 40 dei calabresi. È ovvio che lo Stato ripiana i buchi, con i soldi delle Regioni più risparmiose. Ma, quel che è peggio non sono i costi della “democrazia regionale”, ma la cattiva rappresentanza dei territori. Qui le Regioni non sono riuscite a mostrarsi utili e necessarie. Hanno prodotto un costoso strato intermedio di politici, amministratori, dipendenti, consulenti, ma l’effetto di governo è povero e deludente.

Per capire il referendum, un po’ di storia… La Penisola, spezzata nel 568 dai Longobardi e frammentata per mille anni in molti staterelli, fu spinta all’unità dal Partito d’Azione all’insegna dell’ideologia rivoluzionario-napoleonica della “Grande nation”, nonostante le elaborazioni federaliste di Gioberti, Rosmini, Cattaneo e Ferrari e i timidi tentativi federalistici di Gustavo Ponza di San Martino, di Ricasoli e di Minghetti. La debolezza socio-culturale della borghesia italiana, la sua paura di perdere l’unità appena realizzata, l’analfabetismo al 78% degli Italiani spinsero verso una centralizzazione amministrativa e coercitiva dello Stato. Fu Sturzo nel 1921 a proporre un ripensamento dell’intero assetto statale, partendo dalle autonomie comunali e dalle Regioni. All’epoca le Regioni erano indicate in 15. Il fascismo fece saltare il banco. Restò solo la traccia dottrinale del Subsidiarii Officii Principium della Quadragesimo Anno del 1931.

Nel dopoguerra la DC riprese il filone sturziano, mentre Gianfranco Miglio teorizzava, già nel 1945, un’organizzazione statale con sei Cantoni, molto simile a quella svizzera. Nel 1993 proporrà, nel suo Decalogo di Assago, uno Stato federale articolato in tre Repubbliche. Al Congresso della DC del 1946 Guido Gonella dichiarò: “cardine fondamentale della riforma dello Stato deve essere l’istituzione dell’ente regionale”. Il PCI, al contrario, si opponeva alle Regioni. Secondo Laconi il regionalismo cattolico era solo il riflesso della secolare ostilità della Chiesa cattolica all’unità italiana. Come scriverà De Gasperi più tardi, i comunisti preferivano un comando centralizzato in vista della futura “democrazia popolare”.

Gli anni più vicini a noi

Ma verso la fine del ’47, nel pieno scoppio della guerra fredda, le parti si invertirono. I democristiani, temendo l’insorgenza di repubbliche rosse nel centro del Paese, virarono verso una sterilizzazione dell’istituto regionale. In direzione opposta, i comunisti diventarono regionalisti. Le regioni nacquero solo nel 1970. Da allora la marcia ha portato alla condizione sopra descritta. Nel 1996 la Fondazione Agnelli presentò un progetto di riassetto regionale, che riduceva a 12 il numero delle Regioni (ma la Civiltà cattolica suggeriva di accorpare ulteriormente la Calabria alla Campania!). Il 15 settembre 1996 Bossi lanciò da Venezia la Dichiarazione di indipendenza della Repubblica Federale Padana e un Referendum per l’indipendenza dallo Stato italiano, organizzato il 25 maggio 1997, con il quesito: “Volete Voi che la Padania diventi una Repubblica Federale indipendente e sovrana?”. Votarono 4.833.863 persone ed il risultato fu del 97% di consenso. Ma mancavano gli altri 40 milioni di elettori!

La via catalana si rivelò impercorribile, non disponendo di un consenso maggioritario nella stessa Padania. Nel 2001 la sinistra approvò il Nuovo Titolo V, nell’illusione di attrarre Bossi nella propria orbita, secondo la dottrina D’Alema della Lega come “costola della sinistra”. Il Nuovo Titolo V aprì più di settanta aree di contenzioso tra Stato e Regioni, ingolfando la Corte costituzionale con più di mille ricorsi. Per rimediare al mal fatto, nel 2016 il referendum costituzionale propose di rivedere i confini della legislazione concorrente, riportando in campo allo Stato alcune competenze strategiche relative a energia, trasporti, infrastrutture… La vittoria del NO ci ha riportati al 2001.

E rieccoci qua. Il referendum ha solo valore consultivo, non prevede quorum, è uno strumento debole: è “solo” una presa di posizione politica dell’eventuale elettore. Il suo risultato riaprirà la strada ad una trattativa più serrata con il Governo e, più in prospettiva, allo Stato federale? Questa è la possibile scommessa.