Dopo il G7. Monsignor Galantino: «Il potere e la ricchezza sono utili solo a servizio del bene comune»

Ci sono le belle parole, e poi ci sono i fatti e quando si soppesano questi ultimi il vincitore che aspettiamo è sempre la Cultura, quella con l’iniziale maiuscola. E a noi è sembrato che nel confronto sul G7 che si è tenuto sabato nello scenario meraviglioso dell’Aula Magna della sede di S.Agostino dell’Università di Bergamo, abbia sconfitto 3-0 la politica. Una metafora calcistica per dire che gli uomini di Cultura che sono intervenuti durante la conferenza hanno sconfitto sul campo, in modo netto, quelli che si occupano di politica, ma anche i “tecnici” di un determinato settore. Il settore in questione era quello della Fame nel mondo, dei problemi legati alla povertà: ci si è ritrovati per trovare soluzioni che possano almeno arginare questo fenomeno ormai strutturale. La Cultura nella conferenza di ieri è stata rappresentata da monsignor Nunzio Galantino, segretario generale della Cei, che si è presentato davanti ad una folta platea composta da molte autorità, da molti signori impettiti della politica, della finanza, dell’imprenditoria bergamasca (ma non solo) e da molti studenti senza la forza dei suoi titoli ma come un «uomo del Sud e proveniente da una terra a prevalente vocazione agricola», da Cerignola per la precisione, in provincia di Foggia.
Galantino ha parlato “da uomo a uomo” a chi stava seduto al tavolo e a chi stava seduto in platea, naturalmente con l’obiettivo di rivolgersi a tutti, dato che Bergamo è stata sotto i riflettori del mondo in questi giorni di G7. Ha parlato da uomo della terra che ha costruito su principi puri e nobili una Cultura straordinaria grazie alla quale, come abbiamo detto, ha vinto la partita. L’ha vinta perché in risposta a tante belle parole e a tanti slogan di cui ormai siamo sazi, ha risposto con altre parole (che in sostanza erano “fatti”, “atteggiamenti”) decisamente più concise, più dure, più dirette, ricche di proposte, di speranze, di appoggi, di orizzonti che possono schiarirsi. Ha vinto la partita nel momento in cui ha parlato di «slogan politici che forse acquistano consensi ma addormentano le coscienze e la ragione delle persone». Forse non se ne era accorto, ma mentre politici e tecnici parlavano e promettevano, ancora una volta, di attuare politiche volte alla risoluzione del problema “fame nel mondo” in platea si sbadigliava. L’attenzione l’ho rivolta soprattutto ai ragazzi che, retorica a parte, sono davvero il domani. Loro “addormentati” o distratti dallo smartphone per tutta la durata della conferenza. Fino a che non ha preso la parola monsignor Galantino e allora si sono svegliati. Uno, due, tre, quattro, alla fine sono stati almeno cinque gli applausi convinti che hanno interrotto il suo discorso cosa che prima non era mai accaduta. Giusto un applauso formale al termine dei rispettivi interventi. Con Galantino si è addirittura sorriso perché, con un comportamento genuino e sorprendente tutto “Bergogliano”, ha anche mostrato ad un certo punto i fogli sui quali aveva appuntato il suo discorso cercando di consolare il pubblico indicando, con l’indice della mano destra, che il punto a cui era arrivato era molto vicino alla fine.
Monsignor Galantino ha citato a più riprese Jared Diamond, l’antropologo americano, e anche Papa Francesco (l’unico momento in cui si è servito di qualcosa che avesse a che fare con la fede e questo è stato un altro punto eccezionale) per affrontare a muso duro la politica: «La mano dell’uomo – ha denunciato – è causa o concausa delle situazioni drammatiche che si si registrano in alcune parti del pianeta che, come afferma Papa Francesco nell’Enciclica Laudato si’, è “Un mondo interdipendente”. E, proprio per questo, voglio ricordare – rivolgendomi direttamente ai ministri dei G7 – che le condizioni di questo nostro mondo stanno – anche se non esclusivamente – per tanti versi, ancora nelle mani dei loro Paesi. Perché sono i più ricchi, perché sono i più forti e forse anche perché in passato hanno sofferto molto, ma fanno fatica a conservarne memoria. Essi possono normare per il bene comune. Sono gli stessi paesi che hanno il dovere di frenare gli appetiti – talvolta la voracità – dei più forti, si tratti di soggetti legati a interessi economici o di poteri statuali». Il potere, la finanza, il prezzo da dare alle cose come nemico da sconfiggere; l’agricoltura come arma più efficace per farlo. Galantino ha responsabilizzato i capi del mondo mettendoli spalle al muro, facendo pesare il loro “potere” e la loro ricchezza che sono utili solo nel momento in cui servono a mediare per il bene comune.
«A vincere – ha osservato – continua ad essere sempre e solo il “prezzo”. Il “prezzo” che detta legge è anche l’indiretto responsabile della progressiva espulsione dalle loro terre di milioni di contadini, che migrano verso le città e spesso a rischio miseria e fame. Siamo tutti convinti che questa è una logica perversa. Essa può essere invertita solo attraverso accordi più ampi e inclusivi, che hanno bisogno di regole “alte” su ambiente, consumo di risorse, consumo della … “vita degli altri”. Serve allora che l’enorme potenziale tecnologico che abbiamo sedimentato nel cuore delle nostre agricolture, sappia calarsi dentro un nuovo modello caratterizzato in termini di “sostenibilità” ambientale e sociale; un modello vicino a quell’impronta di prossimità che parte dalla famiglia, garantisce sussistenza e mantiene il ruolo centrale del contadino nella comunità». Ha parlato di contadini, Galantino, un termine che era sparito dal nostro vocabolario e che, anzi, risulta a qualcuno addirittura offensivo. Ed invece è da lì che bisogna ripartire. Dalla terra e da una formazione culturale che deve maturare sin dai primi anni di vita, perché in un confronto alto e decisivo come quello della fame nel mondo alla fin dei conti si vince avvalendosi di quella. «Mi permetto di ricordare, ai ministri in particolare – ha chiuso Galantino – che la “real politik” quando fa bene il suo mestiere, non è mai separata da un’alta valenza etica e da un orizzonte che comprende sempre l’interesse dell’altro, anche di chi è stato il tuo persecutore, anche di chi oggi non può capire».