Gli italiani, popolo di emigranti ieri e oggi. Muoversi apre nuovi orizzonti

Un giorno qualunque, a pranzo in un bar di Città Alta. Al tavolo accanto al nostro sono seduti due giovani, tra i venti e i trent’anni. Entrambi ordinano casoncelli, e fanno considerazioni su come sia bello assaggiare cibo bergamasco cucinato come si deve dopo tanti mesi trascorsi a Londra. Lui, ingegnere, lavora per un colosso di Internet. Lei, laurea e master in Bocconi, per una banca. Finito il pasto, restano chini sugli smartphone a controllare gli appuntamenti e l’agenda. Sono tornati per trascorrere qualche giorno con le famiglie d’origine, ma hanno già prenotato il volo di ritorno. Entra nel bar un altro giovane, l’età è più o meno la stessa: si salutano, sono vecchi compagni di scuola. Anche lui è di passaggio, deve rientrare a giorni a New York, dove si è trasferito da qualche anno, assunto da una multinazionale.
E’ appena uscito il rapporto della Fondazione Migrantes sugli italiani all’estero, e questa scena assolutamente casuale ci dice che quei 124 mila emigrati nel 2016, il 15% in più dell’anno precedente, e fra loro oltre 50 mila “giovani che non torneranno più”, non sono numeri ma probabilmente – in qualche misura – figli di nostri conoscenti, amici, parenti, vicini di casa. E forse, un giorno, anche i nostri figli, le nostre famiglie.
Bergamo è da sempre una terra di emigrazione: oggi, forse, ce ne accorgiamo di meno perché chi parte indossa “colletti bianchi”, e non porta con sé valigie di cartone, ma spesso – anche se non sempre – un diploma di laurea e una specializzazione.
Non ci scandalizziamo per queste partenze: le consideriamo, anzi, un atto di coraggio. Non è facile lasciarsi tutte alle spalle e incominciare da zero in un altro Paese. Molti di questi giovani possono farlo con l’appoggio delle famiglie, che sostengono il loro progetto di emigrazione e lo incoraggiano: sono consapevoli che partire è un’opportunità per aprire gli orizzonti, cercare una vita migliore, raggiungere traguardi impossibili in patria.
Sul versante opposto, quello dei migranti che arrivano in Italia, gli “sbarchi record” del 2016 hanno portato sulle nostre coste (dati del Viminale riportati dal Sole 24 Ore) circa 181 mila persone. Sono, è vero, molti di più dei connazionali che se ne sono andati. Non sono sicuramente forniti degli stessi mezzi, culturali ed economici. Se paragoniamo freddamente i numeri, non sono comunque così tanti da giustificare l’allarmismo da “invasione” cavalcato da molti. 
Il rapporto della Fondazione Migrantes testimonia invece – fra gli altri, moltissimi, complessi stimoli e dati da interpretare – che lo spostamento di popolazioni, la ricerca di condizioni di vita migliori, il desiderio di superare i propri limiti per valorizzare capacità e talenti in Paesi che lo consentano, è un fenomeno che riguarda tutti, che appartiene, insomma, alla condizione umana. Impegnati come siamo ad alzare muri, segnare confini, marcare le differenze, questi numeri ci offrono, quantomeno, qualcosa su cui riflettere. Che cosa ne facciamo, quale futuro, quale orizzonte vogliamo: è una decisione che spetta a noi, e che si attua nella vita di tutti i giorni, anche nelle comunità parrocchiali, anche quando si tratta soltanto di “ascoltare” e capire cosa significa davvero “accogliere”.