Si è fatto un gran parlare, nelle scorse settimane, dell’alternanza scuola-lavoro, tema delicato per le istituzioni scolastiche, gli studenti e anche le famiglie, “innovazione didattica” – come l’ha definita la ministra Valeria Fedeli – che dovrebbe consentire a ragazzi e ragazze che frequentano la scuola superiore di completare il proprio percorso formativo acquisendo competenze nuove, favorite dalla frequentazione non solo dell’ambito propriamente scolastico, ma anche di quello “lavorativo”.
Le norme prevedono oggi un percorso di studio obbligatorio da parte degli studenti da svolgere in aziende fuori dalle aule scolastiche, negli enti locali, nei musei, in istituzioni pubbliche e private. Si tratta di 400 ore conteggiate nell’ultimo triennio per quanti frequentano gli istituti tecnici e professionali, mentre per gli studenti dei licei le ore si riducono a 200 ore. Per intenderci, parliamo, per quest’anno scolastico, di circa un milione e cinquecentomila ragazzi e ragazze tra i 16 e i 18 anni coinvolti nelle esperienze più disparate e che hanno creato e creano non pochi problemi a chi le deve pensare e organizzare. Se, ad esempio, negli istituti tecnici e professionali, da tempo già esiste la consuetudine degli stage aziendali e dunque una forma di collaborazione tra mondo scolastico e mondo del lavoro, si pensi invece ai licei, dove la necessità di “piazzare” gli studenti in alternanza ha un po’ disorientato tutti. “Dove li mettiamo? A fare cosa?”: così ci si chiede a scuola.
C’è stata poi la polemica, con tanto di protesta studentesca, sul lavoro – gratis e inteso come sfruttamento – spacciato per esperienza formativa. E le code infinite di discussione – sui social, anzitutto e come è naturale per i nativi digitale – sull’utilità o meno di affrontare i lavori più umili per formarsi e in qualche modo prepararsi al mondo “fuori” dalla scuola, all’incontro con la realtà concreta dell’occupazione, per niente facile. Addirittura c’è stata una polemica sulla figura e il ruolo degli operai.
In realtà si sconta un equivoco di fondo. L’alternanza scuola-lavoro non può e non deve essere intesa come l’occasione (solo) di conquistare abilità lavorative, competenze in ordine all’inserimento nel mondo del lavoro. È cosa diversa, ad esempio, dall’apprendistato. Resta, infatti, un’esperienza da collocare nell’ambito scolastico, nel percorso complessivo della scuola che mira alla formazione dell’uomo e del cittadino, certamente anche attraverso l’acquisizione di competenze che permetteranno l’inserimento futuro nel mondo del lavoro. Ma la scuola non è e non può trasformarsi – nemmeno con i percorsi di alternanza – in una agenzia di avviamento all’occupazione. Anche la scuola professionale.
Certo, incontrare il mondo del lavoro e, in generale l’“extra-scuola”, aiuta gli studenti a collocarsi in contesti più ampi di quelli cui sono abituati, con esigenze, ritmi e richieste differenti da quelli esistenti negli istituti scolastici. Qui sta il nodo formativo. L’alternanza opportunamente guidata e garantita – non si tratta di mandare ragazzi e ragazze in fabbrica o nei fast-food, o anche nelle biblioteche a far qualsiasi cosa, ma di seguire percorsi concordati e coerenti con i progetti formativi – permette un “guadagno” nel percorso di crescita degli allievi. Servono percorsi di qualità – e la ministra è stata chiara su questo – e soprattutto sempre “guidati”. Deve essere sempre scuola, anche tra i piatti e le fotocopie.