Memoria di Adriana Zarri. La contempl-attiva

Non mi vestite di nero:

è triste e funebre.

Non mi vestite di bianco:
è superbo e retorico.
Vestitemi
a fiori gialli e rossi
e con ali di uccelli.
E tu, Signore, guarda le mie mani.
Forse c’è una corona.
Forse
ci hanno messo una croce.
Hanno sbagliato.
In mano ho foglie verdi
e sulla croce,
la tua resurrezione.
E, sulla tomba,
non mi mettete marmo freddo
con sopra le solite bugie
che consolano i vivi.
Lasciate solo la terra
che scriva, a primavera,
un’epigrafe d’erba.
E dirà che ho vissuto,
che attendo.
E scriverà il mio nome e il tuo,
uniti come due bocche di papaveri.

Questa magnifica Epigrafe, scritta nel 1971 e pubblicata nel volume Tu. Quasi preghiere, Adriana Zarri – di cui nei prossimi giorni faremo memoria del settimo anniversario della morte – l’ha voluta per la sua tomba.

La prima donna a studiare teologia

Una donna singolare, libera, coraggiosa, impertinente. La prima, in Italia,  a studiare e a fare teologia. Senza peraltro conseguire gradi accademici perché allora –  agli inizi degli anni Sessanta – alle donne non era permesso farlo. Bolognese, figlia di un mugnaio, di spiccata intelligenza, Adriana era stata una dirigente di Azione cattolica e nel 1969 la prima donna laica ammessa nel direttivo dell’Associazione Teologica Italiana.

Sono gli anni in cui collabora anche con L’Osservatore Romano ma lo tsunami del Concilio la renderà protagonista di molte battaglie combattute anche attraverso un’attività multiforme di scrittrice: l’emarginazione del popolo di Dio, la scarsa centralità della Parola, il celibato dei preti, il fondamentalismo di alcune frange del cattolicesimo contemporaneo fino a temi più sociali e politici: il controllo delle nascite, il divorzio, l’aborto.

Non sempre mi sono trovato d’accordo sulle sue posizioni ma credo profondamente che a lei si addiceva bene il termine amato da don Tonino Bello: contempl-attiva. Adriana è stata una donna calata nella storia eppure sempre desiderosa di deserto e di silenzio, impegnata a difendere più che i crocefissi di legno quelli di carne eppure nutrita dalla linfa della preghiera.

Gli ultimi trentacinque anni li ha vissuti in solitarie cascine piemontesi: prima ad Albiano (il posto glielo aveva trovato mons. Bettazzi, suo carissimo amico) poi a Molinasso e dopo essere stata vittima di una rapina, a Crotte, vicino a Strombino, nel torinese. “Un modo – ha scritto Marco Roncalli – per non smettere di contestare, scegliendo forse la contestazione più vera: capace di minare ogni dinamica di utilitarismo”.

Una scelta monastica che Adriana ha rivendicato con orgoglio. Eppure non sotto il segno della reclusione o dell’isolamento.

La solitudine non è fuga: è un incontro, così come il silenzio è un continuo ininterrotto dialogo. Non si sceglie la solitudine per la solitudine ma per la comunione, non per stare soli ma per incontrarsi, in un modo diverso, con Dio e con gli uomini”

cosi scrive nel suo magnifico libro “Un eremo non è un guscio di lumaca”, uscito postumo, per Einaudi, nel 2011.

La preghiera all’aperto nella cattedrale del mondo

Era uno spettacolo andarla a trovare. Non solo per l’accoglienza che dimostrava, per la franchezza e l’impertinenza con cui colloquiava di mondo e di Chiesa ma anche per la cura che metteva nel dare calore ai luoghi abitati, per l’amore per i gatti e gli animali, la dedizione con cui svolgeva i lavori manuali nell’orto e nel giardino. Ogni momento della giornata assumeva in lei un sapore mistico e di comunione con Dio. Una continua preghiera di ringraziamento e apprezzamento dell’esistenza in tutti i suoi aspetti, compresi quelli meno poetici come il mantenere pulita una stalla o l’accudire le galline. Tutto, per Adriana Zarri, diventava inno alla vita e lode al Signore.

In ogni cascina abitata c’era una piccola cappella ma a lei piaceva pregare anche all’aperto:

Forse pregherò fuori, anziché in cappella. Amo il tempio desacralizzato del mondo, proprio perché amo il mondo e lo trovo cattedrale degnissima di Dio. Forse mi stenderò sul prato, a braccia aperte come a chiamare il cielo. Certo verrà Selù a leccarmi le mani e i tacchinotti bianchi e domestici a beccarmi il vestito. Si lasciano prendere il collo e baciare sulla testina rossa e ossuta. Non sono belli ma fanno tenerezza. Distrazioni? Sì, potrebbe essere; ma non necessariamente. Possono essere anche il tessuto del nostro incontro con Dio.

È sepolta nel cimitero di Crotte, non lontano dal granaio trasformato in cella-studio dove ha abitato gli ultimi anni della sua vita. In obbedienza alla sua richiesta di avere “un’epigrafe d’erba” sulla tomba è stato seminato del trifoglio nano. In mano, nella bara un ramo e, come lei aveva chiesto, la Bibbia aperta al brano della Samaritana.