Il ruolo del prete: è ancora necessario? Dalla festa per il Seminario al calo delle vocazioni, con lo sguardo al futuro

Pubblichiamo un intervento di don Roberto Gallizioli, parroco e responsabile dell’unità pastorale di Cisano Bergamasco sul ruolo del prete, scritto in occasione del 50° anniversario di costruzione del Seminario vescovile Giovanni XXIII di Bergamo. È una riflessione critica e auto-critica che solleva molti problemi, a tratti anche un po’ provocatoria. La proponiamo come spunto per avviare un dibattito sul tema, che ci auguriamo diventi nel tempo il più possibile ricco e vario.

Non è il seminario che si sta svuotando, è il prete che non è più necessario. In questi giorni si ricordano i 50 anni della costruzione dell’attuale Seminario vescovile di Bergamo. Ho trascorso tutti gli anni della mia formazione culturale, umana, civile, religiosa, vocazionale in quel luogo. Lo consideravo la “mia casa”, poi in questi ultimi anni il legame è venuto un po’ meno per il semplice fatto di frequentarlo assai sporadicamente, anche se il Seminario rimane sempre un punto di riferimento importante e indiscusso. Attorno al seminario ci sono un’infinità di ricordi, di emozioni, di colori, di fatiche, di cadute e di riprese. Il Seminario è fortemente intrecciato con la mia vita, in particolare per il fatto di aver scelto di essere prete, ma poi per il fatto che dentro quelle mura (da non leggere affatto come una prigione) ho costruito la mia umanità. Sono contento di tutto questo! Sono contento degli anni vissuti e trascorsi in seminario. Ho un buono, bello e grande ricordo del seminario.

Oggi però cerco di pormi anche un’altra domanda: sarei capace di consigliare e incoraggiare un giovane a vivere l’esperienza del seminario? E ancor più: sarei capace di invitare un giovane a pensare di scegliere per la sua vita il dono del sacerdozio? E ancora più in profondità: sono un esempio, un incoraggiamento per i ragazzi a pensare che valga la pena pensare anche alla scelta sacerdotale come opportunità per la loro vita?

Cerco di rispondere con ordine.

Sì, ad un ragazzo anche piccolo (io ho iniziato il cammino in seminario con la prima media) consiglierei di vivere l’esperienza del Seminario a prescindere poi dalle scelte che farà nel cammino della vita. Il Seminario è una grande opportunità di formazione culturale, umana, civile, religiosa e vocazionale. Sì ne vale veramente la pena!

Non riesco a rispondere con un sì convinto alla seconda domanda: non sono certo di riuscire ad incoraggiare un giovane a pensare alla scelta sacerdotale come possibilità per la sua vita. Oggi (che è già profondamente diverso da 15 anni fa) manca un modello di prete ed è assai difficile capire cosa voglia dire “fare e vivere da prete”. L’unico modello ben chiaro che abbiamo è ancora quello di fine ottocento (quello di don Bosco per intenderci) e quindi non si fa altro che rubare da quel riferimento. Ci sono preti che rubano da quel modello ciò che pensano sia opportuno per l’aspetto educativo, altri per l’aspetto liturgico,  altri ancora per l’aspetto sociale o amministrativo. Fare e vivere da prete oggi è una babele di mille cose e spesso in contrasto tra di loro.

Il problema serio è legato alla terza domanda: No, non sono capace di essere un buon testimone della vita sacerdotale. Con la mia vita non incoraggio nessuno (anzi a volte rischio di raffreddare anche quei pochi bollori che possono nascere). Mi domando spesso se stia facendo il prete, se stia vivendo da prete: la risposta è quotidianamente davanti agli occhi per il fatto che spesso non ne sono per nulla contento.

Sono un sacerdote che vive di corsa i momenti di preghiera della comunità e spesso anche senza averli preparati con le dovute attenzioni. Sono spesso triste e un po’ arrabbiato, scontroso e facile a risposte “di pancia”. Sono preoccupato per la gestione amministrativa della parrocchia che mi prende molti pensieri. Sono un manager per i dipendenti e un incapace gestore del personale.

Sono un orso nelle relazioni e profondamente disattento nei confronti della mia famiglia. Non so pregare, o meglio quando poi dovrei cercare di pregare sono stanco e anche se cerco di vincere questa conseguenza, non riesco a rimanervi fedele e attento.

Quindi se un giovane mi guarda, ovviamente gli passa la voglia di fare il prete. Lo capisco bene e condivido pienamente con lui questa conclusione.

Fare il prete è spesso un inventarsi giorno per giorno rispondendo alle innumerevoli domande che ti vengono buttate addosso senza nessuna attenzione nei tuoi confronti, ma semplicemente perché fai di mestiere il prete e non perché sei prete. La maggior parte delle persone che bussa alla porta lo fa senza credere nella tua presenza sacerdotale, ma come prete che per natura deve essere attento a tutti, soprattutto ai poveri (e quindi ci si presenta sempre come poveri e bisognosi).

È veramente assurdo come l’altro sappia bene – a suo dire – cosa definisca un prete, quale modello di vita debba contraddistinguere il comportamento di chi ha fatto la scelta sacerdotale, ed io che sono prete non riesca a cogliere e a definirmi in un modello.

Oggi non serve più il prete, ma un uomo che sia operatore socio assistenziale. Se poi questo tale vuole avere le sue convinzioni da un punto di vista teologico, se le tenga per sé e le organizzi come meglio crede, ma non venga ad importunare con dissertazioni a cui non importa nulla a nessuno. Oggi non è necessario sapere qualcosa  di fede, è sufficiente che si pasticci un po’ di carità (meglio se la chiamassimo pseudofilantropia).

Sembra che non sia così decisivo il presiedere l’eucarestia e neppure il sedere in confessionale, il far visita agli ammalati: oggi ciò che conta è accogliere i poveri e fare opere di filantropia. Qualcuno fa riferimento ancora ai grandi santi della carità, ma non per il fatto che siano sacerdoti, religiosi o religiose, ma perché hanno fatto quella determinata opera e per quella opera sono considerati santi e modelli da imitare. Santa Teresa di Calcutta è un modello perché ha assistito e si è fatta vicino a molti poveri delle caste più povere e intoccabili dell’India, non perché si alzava presto al mattino per la preghiera, la messa e l’adorazione eucaristica. Don Mazzolari o don Milani sono modelli di santità non perché preti che hanno vissuto il vangelo, ma perché uomini che hanno lottato contro l’ingiustizia in cui erano relegati i poveri delle loro comunità parrocchiali. E così potrei continuare.

Sono trascorsi 50 anni dalla costruzione del nuovo Seminario e ora ci si domanda come affrontare la sfida vocazionale: io credo che il problema non sia il calo delle vocazioni, ma l’idea stessa di sacerdote che non riusciamo a vivere nella sua pienezza e a testimoniare nella sua bellezza. Ovviamente ci saranno e ci sono anche delle colpe e delle conseguenze che oggi vedo assai difficile riuscire a riprendere in mano perché qui in gioco c’è un’idea ben chiara di chiesa, di fede e di vangelo. Ho l’impressione che mentre celebriamo i 50 anni del Seminario non possiamo, nello stesso tempo, celebrare i 50 anni di seria riflessione e rivisitazione del sacerdozio. Noi preti abbiamo gongolato dietro la tonaca più attenti a guadagnare e marcare il territorio. I nostri parrocchiani – forse – hanno gongolato attorno alla tonaca scaricando la formazione catechetica e morale al prete, così come le responsabilità e l’impegno educativo e vocazionale.

Non è il seminario che si sta svuotando, è il prete che non è più necessario. Buona festa a tutti: preghiamo lo Spirito Santo che almeno continui ad accompagnarci!