Il PD ha dieci anni. I suoi tormenti e quelli del Paese

Foto: Massimo D’Alema

L’unificazione nel PD di DS e PPI-Margherita è stato un impasto mal riuscito, una fusione fredda, così che è meglio che ciascuno torni a casa propria, la sinistra con la sinistra, il centro con il centro? È questa la diagnosi di D’Alema. In realtà, la fusione è stata caldissima, perchè il PCI-PDS-DS e la DC hanno, ciascuno, ha messo in comune la parte più intimamente condivisa delle rispettive culture politiche.

La “fusione fredda” degli inizi. Le complicate vicende successive

Peccato che fosse anche quella più obsoleta: è l’ideologia del CLN e dell’antifascismo la base culturale del PD. Suo corollario: una democrazia protettiva, consociativa, partitaria; e, quindi, istituzioni sotto controllo partitico. I partiti sono “la democrazia che si organizza”, secondo la nota espressione togliattiana, sono l’architrave del sistema istituzionale. Dal lato rivolto in basso, verso la società civile, i partiti educano alla cittadinanza, alla partecipazione e alla democrazia, imbrigliano e filtrano le tendenze più qualunquiste e gli spiriti animali del Paese. E, in effetti, i partiti del CLN hanno funzionato da incubatore di una società civile devastata dalla guerra e lacerata sanguinosamente da una feroce guerra civile, una società senza patria e senza Stato. Sul lato rivolto verso l’alto, verso lo Stato politico e lo Stato amministrativo, essi hanno rilegittimato e rialimentato con il loro personale politico tutti i rami, alti e bassi, dello Stato politico e, con l’amnistia del ’46, tutti i rami alti dello Stato amministrativo. E poichè lo Stato è anche imprenditore e anche assistenziale, i partiti hanno via via occupato anche i gangli del primo e del secondo.

Benchè il termine “partitocrazia” abbia spesso assunto, in bocca ai vecchi liberali, il sapore di una nostalgia conservatrice, esso descriveva e continua a descrivere perfettamente l’architettura della democrazia italiana. Lo usarono, tra gli altri, Maranini e don Sturzo. Se i partiti dovevano essere un soggetto intermedio tra società civile e Stato, in realtà sono diventati l’istituzione/non istituzione per eccellenza, mentre le Istituzioni sono diventate una dépendance del sistema dei partiti. La mediazione dei partiti si è gonfiata fino a esplodere. La contraddizione era ed è che i partiti erano e sono associazioni private, ma dotate di un enorme potere pubblico. È scoppiata in faccia ai partiti stessi e ha messo a rischio la democrazia liberale.

Intanto, e molto presto, già dagli anni ’60 e dal ’68, dal lato della società civile, complessificazione sociale, crescita di istruzione, etica pubblica più esigente hanno fatto nascere uno spirito pubblico più universalistico, più attento al destino comune, meno rassegnato all’Italia delle fazioni e della relativa corruzione, più aperto al confronto con l’Europa, più insofferente dell’Italietta di sempre. Le prime tardive risposte della politica furono il compromesso storico, l’intervista di Enrico Berlinguer a Repubblica il 28 luglio del 1981 sulla questione morale, la proposta della Grande riforma di Craxi, la relazione di Occhetto al Comitato centrale del novembre 1987, il “Manifesto dei 31” del gennaio 1988, promosso da Mario Segni, il referendum del 9 giugno 1991, la Rete, Alleanza democratica, i referendum del 18 aprile 1993, tra cui quello relativo al passaggio al sistema elettorale e maggioritario, votato da circa 37 milioni di elettori, di cui favorevoli circa 29 milioni. La maggioranza dei partiti, in primo luogo il PCI-PDS di Occhetto, fu favorevole, eccetto Craxi, Rifondazione comunista, la Rete, l’Msi.

Le mancate riforme. La rivolta contro la politica, il futuro molto incerto

Il passaggio immediato da fare era quello del sistema elettorale, ma sullo sfondo stava il mutamento istituzionale in una direzione (semi)-presidenziale. Massimo D’Alema annunciava “la rivoluzione liberale” e un “Paese normale”, Pannella presentava una lista “Radicali per il Partito democratico”, a Milano veniva lanciata la Rivista “I Democratici”, primo tentativo di successo di fusione tra cattolicesimo liberale e socialismo liberale, il 6 marzo del 1995 veniva fondato l’Ulivo, il 5 febbraio del 1997 Massimo D’Alema veniva eletto presidente della Bicamerale, nella quale si sarebbe  pervenuti ad un accordo per una repubblica semipresidenziale e una legge elettorale a doppio turno. Il tavolo della Bicamerale fu rovesciato da Berlusconi, ma anche, secondo alcuni, da forze esterne quali la Magistratura, con cui il PDS aveva stretto legami decisivi. Sì, perchè mentre lo Stato politico è sempre stato mantenuto sotto il controllo dei partiti, viceversa lo Stato amministrativo, tra cui la Magistratura, i rami alti, le tecnocrazie ministeriali si erano da tempo costituiti come forza “politica” indipendente.

Da allora in avanti, comunque, ogni riforma istituzionale fu bloccata, eccetto quella del Titolo V, solo perchè questa non toccava la questione dell’istituzione-governo. Quella di Berlusconi del 2006 fu osteggiata dai DS con gli stessi argomenti con cui nel 2016 Berlusconi si è opposto alla riforma Renzi. I partiti hanno ripiegato, al fine di garantire la governabilità, sulle riforme elettorali – dopo il Mattarellum, il Porcellum, l’Italicum, il Rosatellum, che non sarà affatto l’ultimo… – senza più riaffrontare la questione dell’istituzione-governo. Ora, le riforme elettorali si espongono al giustificato sospetto che esse siano soltanto l’ennesimo escamotage del partito che al momento ha, o si illude di avere, la maggioranza per mantenere il potere a tempo indeterminato. Questo, d’altronde, è stato il sospetto alimentato anche contro la riforma Renzi, proprio perchè legava inestricabilmente Italicum e abolizione del Senato.

Certo è che dall’incapacità dei partiti di mettere in discussione la Costituzione formale e materiale della repubblica – ormai arretrata rispetto alla crescita della società civile italiana e al contesto europeo e globale – è nata la rivolta contro la politica, si è originata un’accumulazione originaria di odio verso i partiti. Il fallimento dell’autoriforma dei partiti, il rifiuto della propria pubblicizzazione – con eccezione unica del PD –  hanno generato il grillismo. La cui fortuna non nasce, principalmente, dalla rabbia sociale né è fondata su programmi particolarmente credibili – i programmi sono solo ami gettati nella palude – bensì dalla rabbia politica. I cittadini si sentono maturi e pretendono di scegliere direttamente il deputato che li rappresenti e il capo del governo. Oggi il voto degli elettori si ferma sulla soglia del Parlamento. Di lì in avanti, tutto è blindato nella dialettica partitico-parlamentare. I cittadini sentono la contraddizione tra la privatezza dei partiti e l’universalismo delle istituzioni, occupate da potenze di parte.

Il M5S è nato dalla faglia che si è aperta nel sistema dei partiti tra potere istituzionale e potere di legittimazione: massimo del potere, minimo di legittimazione.

Che le sue proposte istituzionali/costituzionali – “uno vale uno”, l’algoritmo al posto del Parlamento, il governo come amministrazione tecnica – siano illiberali e totalitarie è un fatto, ma non saranno sconfitte dalla difesa della democrazia a dominanza partitica, consociativa e proporzionalistica, generatrice di debito pubblico, ma da una democrazia competitiva, fondata su due schede elettorali: una per il deputato, una per il capo del governo. Verso una Repubblica senza partiti? Certo che no. Verso partiti più educatori/ formatori di classe dirigente, più democratici, più “pubblici”.

Intanto gli scenari post-elettorali di primavera promettono ingovernabilità, instabilità, elezioni a ripetizione. Fino a quando?