I preti continuano a diminuire. Ma nessuno è stato battezzato prete

“Ci dovremo abituare alla scomparsa della tradizionale figura del parroco, guida unica della chiesa che sorge vicino a casa nostra, factotum per i sacramenti, il culto, l’oratorio e le attività sociali.“ Cosi scrivono Domenico Agasso e Andrea Tornielli su “La Stampa” di qualche giorno fa.

Il linguaggio crudo delle cifre

Ma più ancora, cosi dicono i numeri forniti dalla Conferenza episcopale italiana e dall’Istituto centrale per il Sostentamento del Clero: nelle 224 diocesi italiane le parrocchie sono 25.610, mentre i parroci 16.905. Il bilancio è un meno 8.705, che significa: molti sacerdoti devono guidare due o tre parrocchie, quando va bene. Quando va male, anche 15, anche 19 (sì, diciannove!), come don Maurizio Toldo nella diocesi di Trento. In loro aiuto ci sono 6.922 viceparroci, ma la coperta resta corta. E senza prospettive di inversione di rotta: il calo di vocazioni – circa il 12% nell’ultimo decennio – interessa sempre più il nostro Paese.

Dunque non è pensabile mantenere in vita come un tempo tutta la rete capillare di parrocchie e chiese che intessono le strutture delle città e dei paesi, tantomeno garantire le messe in orari comodi per tutti. Ma se il modello don Camillo, immortalato nei romanzi di Giovannino Guareschi e citato anche da Papa Francesco al recente convegno della Chiesa italiana di Firenze, appare in declino, questo non significa che le parrocchie – almeno nel breve periodo – rimarranno senza un prete.

Paragonare solo il numero delle parrocchie con quello dei parroci può servire a prendere coscienza del problema, ma rischia di essere fuorviante. Infatti ci sono altre cifre di cui tenere conto: i sacerdoti – secolari, ossia diocesani, e religiosi appartenenti a famiglie religiose – sono infatti quasi 35mila, di cui, nel 2016, 31.728 attivi, mentre 3.082 sono non operativi per motivi di età o di salute (senza dimenticare i 399 impegnati nelle missioni del Terzo Mondo). Nel frattempo, è utile sapere che in America Latina, in Africa e anche in Russia le parrocchie guidate da un laico sono diventate quasi quattromila.

Come sarà tra vent’anni?

È chiaro che la progressiva e inarrestabile mancanza di preti stia ponendo il problema anche a Paesi europei, e tra questi anche al nostro. Ci sono due risposte alla attuale situazione: una quella attuata negli ultimi due decenni, in base alla quale semplicemente è stato adeguato il numero delle parrocchie a quello dei preti che si ritiene possano essere attivi in futuro. Questo ha significato che le parrocchie sono diventate sempre più estese; un parroco si è dovuto occupare di un numero sempre maggiore di fedeli.

L’altro è camminare verso una guida collegiale delle comunità. Quando non c’è più un prete responsabile, si può ipotizzare (come già fanno nella diocesi di Monaco di Baviera) di costituire un team per la dirigenza, composto da volontari e da persone che vi lavorano a tempo pieno. Laici, non preti. È chiaro che una prospettiva di questo genere obbliga ad un cambiamento – radicale –  di sguardo sul tipo di immagine di Chiesa che abbiamo. Abolendo l’automatismo con il quale finora ci siamo mossi: e cioè che siano i preti a dirigere. De facto, nei prossimi anni – piaccia o non piaccia – dovremo metterlo profondamente in discussione.

Non basta dire “spazio ai laici”

I segnali, da noi, sono controversi. A parole, si mette grande enfasi sullo “spazio ai laici”. Nei fatti, si ha spesso l’impressione che le nostre comunità si strutturino ancora oggi in modo clericale. Certo non si può negare né ignorare il retaggio di una lunga storia che ha generato un clericalismo più preoccupato – direbbe papa Francesco – di dominare gli spazi che di generare processi. Certo, non si può negare nemmeno che i laici cattolici facciano fatica ad essere laici adulti (e non fotocopie sbiadite dei preti), non solo nella fede ma anche nella cultura.

Però da qualche parte bisogna partire e qualche segnale bisogna darlo. Perché la questione del laico è al cuore delle sfide pastorali che le nostre comunità parrocchiali devono affrontare. Perché la questione del laico è la questione del cristiano, che, in forza del battesimo, appartiene al popolo di Dio. Più volte papa Francesco ha affermato che

la nostra prima e fondamentale consacrazione affonda le sue radici nel Battesimo. Nessuno è stato battezzato prete né vescovo. Ci hanno battezzati laici ed è il segno indelebile che nessuno potrà mai cancellare.

Dunque la formazione del laico e la sua assunzione di responsabilità dentro la comunità cristiana sono impegni decisivi e non più prorogabili delle nostre chiese. Per chi vuol guardarli, i numeri, in discesa verticale, dei preti anche dalle nostre parti,  stanno ad indicare la fine, prossima, di un modello che ha retto con sapienza dal Concilio di Trento in poi ma che è destinato a crollare. Prima di quanto si pensi. Naturalmente subire il cambiamento per la forza dei fatti è ben altra cosa che governarlo in virtù della propria libertà spirituale; per questo oggi si può e si deve sperimentare quello che domani sarà inevitabile fare.

Ad uno sguardo credente ciò che sta accadendo non è la fine del cristianesimo ma di un certo cristianesimo. Se uno ha gli occhi della fede può cominciare a intravedere i germi di un ricominciamento. E se la cosiddetta crisi vocazionale fosse piuttosto un segno dei tempi con cui Dio vuole parlare ad una Chiesa distratta e clericale per costringerla a prendere decisioni inedite ma epocali, adeguate alle esigenze del presente per rispondere in tempo all’anelito di Dio che sale dalle viscere del mondo? E se il prete imparasse a fare ciò che gli è proprio (“celebrare il culto divino e santificare il popolo” dice il Codice di diritto canonico) e permettesse, senza troppi patemi, ai laici di fare tutto il resto?