La 17a Legislatura è finita. Bilancio in chiaroscuro e prospettive incerte

Il premier Paolo Gentiloni

La XVII legislatura che si chiude è la più brillante di quelle degli anni 2000. Con fatica e a denti stretti, anche i commentatori dei giornali da sempre ostili al governo sono costretti a prenderne atto. Una legislatura con tre governi, coalizioni a geometria variabile, numero record di cambi di casacca, due presidenti della Repubblica si è chiusa dopo i regolari cinque anni – quelli della peggior crisi economica e occupazionale dal 1929, così dicono gli economisti – con un’Italia in ripresa, la fiducia delle famiglie in rialzo, le cifre dell’occupazione in aumento, l’export da grande potenza… Insomma: il bicchiere è mezzo pieno!

Il bicchiere mezzo vuoto di Gentiloni e quello di Berlusconi, Salvini, Di Maio

Tuttavia sarebbe sorprendente che le forze di opposizione al governo non sottolineassero che è mezzo vuoto. Di quel “mezzo vuoto”, d’altronde, Paolo Gentiloni per primo è ben consapevole. Solo che non è lo stesso denunciato da Berlusconi, Salvini, Di Maio. Dove sta il vuoto o, fuor di metafora, che cosa resta da fare per rimettere in piedi un Paese fragile? Sta nella connessione essenziale tra collocazione europea e riforme istituzionali. Detto altrimenti: abbiamo bisogno di istituzioni forti; segnatamente, di un governo forte per collocarci da protagonisti negli assetti politici e istituzionali della nuova sovranità europea, che è la condizione di sicurezza e di sviluppo di ciascuno Stato-membro dell’Unione, in relazione alle sfide del quadro geopolitico mondiale.

Ebbene, “il mezzo vuoto” è questo: le riforme istituzionali non sono state fatte, la nostra partecipazione attiva alla definizione del nuovo profilo della sovranità europea è a rischio. Da decenni, per l’esattezza dal 14 aprile 1982 – quando fu approvata la costituzione di una Commissione bicamerale, presieduta dall’on. Aldo Bozzi, per le riforme istituzionali – i partiti sono consapevoli che la seconda parte della Costituzione, riguardante l’ordinamento della Repubblica (artt. 55-139) e, in particolare, la forma di Stato e di governo va rivista.

Già negli anni ’60, i partiti si erano resi conto che stavano venendo meno le condizioni storico-politiche che avevano assegnato all’istituzione-governo un ruolo debole. Proprio gli anni del boom economico, dello sviluppo arrembante e disordinato, con incrementi annui del PIL oltre il 6%, si faceva più forte l’esigenza di un governo forte dello sviluppo e della complessità sociale tipica di una società matura. La “Grande Riforma” degli anni ’80 di Craxi andava nella stessa direzione.

Perché, nell’anno 2018 ineundo, ci troviamo ancora nelle stesse condizioni degli anni ’60, tuttavia peggiorate per la crisi economica e per la perdita di legittimazione dei partiti, al punto che è insorto un partito degli anti-partito e la politica e i politici sono oggetto di odio organizzato e la democrazia liberale, fondata sui partiti, è considerata un ferrovecchio? Un intreccio di cause culturali di lunga durata e di interessi politici contingenti di singoli partiti hanno prodotto questo stallo. Negli anni ’80 furono il PCI e la sinistra democristiana a battersi contro il “governo forte”. Chi, come Randolfo Pacciardi, aveva avanzato, in un Appello del 26 gennaio 1964, l’idea di una Seconda repubblica di tipo presidenziale – sull’onda della Quinta Repubblica francese – sarà accusato ingiustamente nel 1974 dal magistrato Luciano Violante di aver appoggiato il “golpe bianco” di Cavallo e Sogno.

Le paure che hanno bloccato le riforme. Europa e istituzioni

L’opposizione alla riforma presidenziale era fondata su una doppia paura: quella del ritorno dell’uomo forte e quella del rischio di guerra civile. L’8 settembre ’43 è il fantasma che continua ad aggirarsi nei meandri dell’inconscio della cultura politica italiana. Perciò nel 1973 Enrico Berlinguer aveva teorizzato il compromesso storico, cioè il governo di tutti con tutti, purchè non vi fosse alternanza/alternativa dei partiti al governo. Si governa insieme, un po’ tutti, in base al consenso proporzionale ricevuto. Lo ha di nuovo sostenuto Zagrebelsky nell’anno 2016. Il Parlamento è la sede del governo reale, il governo-istituzione è solo un epifenomeno. Dopo lo sconquasso dell’’89 la domanda pubblica di governo forte si fece più esigente, ma fu deviata verso la richiesta di un nuovo sistema elettorale, a preferenza unica, a collegio unico uninominale. L’illusione, condivisa anche dall’Italicum, era quella di arrivare al governo forte per la modifica del sistema elettorale. Fu soltanto nella Commissione bicamerale per le riforme costituzionali, presieduta da Massimo D’Alema, varata il 5 febbraio 1997, che si arrivò a un passo da un nuovo assetto costituzionale, che prevedeva il modello semipresidenziale francese e un sistema elettorale a doppio turno di coalizione. Lo aveva votato anche Bossi.

Ma Berlusconi lo fece saltare. Avendo costruito la vittoria del 1994 sui residui ideologici della guerra fredda – cioè sulla filosofia del reciproco assedio e sul rifiuto di legittimare l’avversario – temeva che il nuovo assetto semipresidenziale avrebbe legittimato il governo Prodi nella tornata successiva e chissà per quante altre. È lo stesso riflesso che lo ha spinto contro il disegno di riforma costituzionale Renzi-Boschi del 2016, dopo la squillante vittoria di Renzi alle elezioni europee del 2014. Per la storia, è interessante ricordare che la sinistra francese reagì allo stesso modo dopo la prima elezione diretta del presidente della repubblica nel 1962. Mitterrand denunciò “il fascismo quotidiano” di De Gaulle. Ma diciannove anni dopo Mitterrand fu eletto presidente a sua volta. Non così lungimirante il nostro Berlusconi, benchè ami paragonarsi a Cavour e a De Gasperi.

Insomma: alla base del conservatorismo istituzionale sta un’idea consociativa della democrazia, fondata sul potere di veto. Non l’alternanza democratica, ma l’alternanza vetocratica, reciproca e paralizzante. L’altra causa, altrettanto profonda, è l’idea della collocazione dell’Italia nel mondo. Cadute le ambizioni imperial-straccione del fascismo, l’Italia del dopoguerra si è ritagliata una nicchia, sanza infamia e sanza lodo, all’ombra della Nato, di cui è stata la portaerei nel Mediterraneo. Un gigante economico – settima potenza industriale – un nano politico. Anche sullo scacchiere europeo si è messa in scia dell’asse franco-tedesco. Una qualche politica estera autonoma è stata praticata dall’Eni di Mattei verso l’Africa mediterranea. E stop.

Finito il mondo bipolare, venuto avanti un disordine geopolitico globale, l’Italia è ora costretta a riscoprire un ruolo europeo e mondiale. E non certo per ambizioni neo-imperiali, ma per garantire sicurezza, libertà e benessere agli Italiani. Se questo è lo scenario, servono governi forti, autorevoli, duraturi, tempestivi. Il mondo non ci aspetta. Non bastano né velleità né vittimismi. Molta parte della politica italiana è ferma culturalmente ad una politica estera provinciale, per la quale l’Unione europea è solo un’associazione temporanea di scopo da utilizzare a fini di politica interna. Se l’Europa è il livello su cui costruire una sovranità in grado di favorire la capacità dei cittadini italiani ed europei di padroneggiare le condizioni della propria vita, allora la riforma della Seconda parte della Costituzione del ’48 è la pre-condizione. Per il russo nazionalista Dostoevskij era l’Asia “il nostro esodo verso il nostro futuro”. Per noi Italiani è l’Europa. Europa e istituzioni: queste le poste in gioco delle elezioni del 4 marzo 2018.