Un treno merci carico di deportati sotto gli occhi di un bambino: da una storia del passato una lezione per il futuro

C’era una volta una valle innocente, popolata da famiglie semplici, pacifiche, frugali. Un luogo posto a mezzacosta del monte Gattaia sul versante della valle solcata dal torrente Muccione. Una valle appenninica dove nulla era stato lasciato al caso e ogni gesto, pietra e persona aveva il suo significato e la sua storia. La piccola stazione “rosa perlino” di Fornello, situata nel cuore dell’Appennino tosco-romagnolo, è la location del romanzo “Il bambino del treno” (Piemme Editore 2018, pp. 216, 17,50 euro) di Paolo Casadio.

Dal 1935 al 1943 per quella stazione “transita tutta la Storia nei modi permessi da un luogo isolato e difficilmente accessibile, lasciandola sostanzialmente intatta” scrive l’autore nelle pagine finali del testo e ora è un piccolo regno dell’archeologia ferroviaria, perché nel maggio 2016 è stata inserita all’interno del Censimento dei Luoghi del Cuore promosso dal FAI (Fondo Ambiente Italiano) in collaborazione con Intesa San Paolo.

Nel giugno del 1935 alla stazione di Fornello giunge da Faenza il nuovo capostazione, Giovanni Timi detto Giovannino con sua moglie, la maestra Lucia Assirelli, incinta di cinque mesi del nascituro Romeo. I coniugi sono accompagnati dal silenzioso cane d’incerta razza Pipito, con due biciclette e delle masserizie. La soddisfazione di Giovannino si spegne quando sceso dal convoglio si accorge che attorno ai binari e all’edificio che sarà la biglietteria e la sua casa, non c’è nulla (pur di accedere al concorso da capostazione e ottenere la tanto sospirata promozione si era iscritto tardivamente al PNF, Partito Nazionale Fascista). In quel posto isolato e solitario si percepiscono solo il profumo delle ginestre e un profondo silenzio. Tre mesi dopo nasce Romeo che si adatta immediatamente ai ritmi lenti della stazione di Fornello e della linea faentina, ovvero la tratta Faenza-Firenze. Ma all’antica lentezza di un paese che il mondo e le nuove leggi che lo governano sembrano aver dimenticato, fa da contrasto quello stesso mondo crudele che sta conducendo l’umanità verso gli orrori della II Guerra Mondiale. «Non c’è nulla da dimenticare, la memoria è importante. Senza memoria non c’è futuro, anzi, non si può avere un futuro» precisa Paolo Casadio, nato a Ravenna nel 1955, da noi intervistato.

Una sera del dicembre 1943, un treno composto da due vagoni merci, chiusi, color rosso fegato si ferma nella stazione di Fornello e la vita che Giovanni, Lucia e Romeo hanno finora conosciuto e amato viene spazzata via. Eppure finora quell’isolamento era stato per Giovannino una strategia di vita. Per gli occhi innocenti di Romeo è l’incontro con una realtà di cui non è in grado di concepire l’esistenza?

«C’è una valle che è la metafora del rifugio, quello che è stato per Anna Frank il suo nascondiglio, un qualche cosa che doveva garantire la sopravvivenza e che stava riuscendo fino all’arrivo di questo transito. Non ho frequentato molto l’Appennino che è una montagna particolare con molte testimonianze di una vita che non c’è più, perché si è molto spopolato. Scrivendo di Romeo ho mescolato i miei ricordi di bambino con quelli da escursionista. C’è molto di me in Romeo, il bambino rappresenta l’innocenza di chi si affaccia alla vita. È curioso, perspicace e osservatore. Romeo è nato nel posto giusto, anche la solitudine della valle è per Romeo combustibile per farsi domande e per porle ai propri genitori. Quel treno non doveva passare di lì. La ricerca storica mi dice che per la linea Faenza-Firenze non sono passati treni di deportati».

Il romanzo è anche la storia di chi seppe vivere un sentimento di felicità in un viaggio di morte.  Ce ne vuole brevemente parlare?

«Quando si aprono le porte del treno e Romeo vede la bambina, entra come in un’altra dimensione e s’innamora. E sarà per sempre. Sembra assurdo pensare che si possa provare gioia in un viaggio di orrore, che già si annuncia di tragedia. Ma è quello che prova Flavia, una gioia nascosta, vedendo Romeo».

Prima di scrivere il libro è tornato a visitare la stazione di Fornello? In quali condizioni si trova adesso?

«Sì, andai a Fornello con mia moglie prima di scrivere il romanzo. Ci perdemmo, perché la valle è completamente abbandonata e allora i sentieri non erano segnati. Ho iniziato la stesura del romanzo e sono tornato a Fornello a lavoro quasi concluso con un mio caro amico compagno di escursioni. Era circa due anni fa e il tetto della stazione era ancora integro, ma adesso? Sono un sognatore e spero che qualcuno si occupi del restauro del luogo, parlo anche delle case rurali circostanti che sono quelle che ho descritto nel romanzo, che conserva dentro di sé la memoria e la testimonianza di chi ci ha vissuto, di chi lì ha amato e ha sofferto».

I personaggi sono inventati, ma la scansione storica degli avvenimenti è autentica. Quali fonti ha consultato per la redazione del romanzo?

«Ritengo che l’esatta scansione degli eventi sia la forza del libro. Ciò mi serve per calarmi nel periodo storico del quale sto scrivendo. Per quanto riguarda le fonti ho attinto alle cronache del “Resto del Carlino”. Avevo già letto “Ebrei sotto Salò” di Giuseppe Mayda, “Il libro della memoria” di Liliana Picciotto Fargion, “Le leggi antiebraiche spiegate agli italiani d’oggi” di Michele Sarfatti e altri libri da me citati nelle pagine finali del testo».

A quasi ottant’anni dalle leggi razziali fasciste, promulgate dal regime di Benito Mussolini in Italia nel settembre del 1938, nel cuore dell’Europa si stanno affermando in diversi Paesi partiti xenofobi che in maniera più o meno manifesta propugnano la non contaminazione con gli immigrati, i profughi, i disperati. Come tentare di fermare l’onda xenofoba che rischia di riportare indietro le lancette dell’orologio?

«Leggendo la Storia mi sono reso conto come si stiano riproponendo dei meccanismi molto simili a quelli degli anni Trenta del XX Secolo, cioè gli anni prima dello scoppio della II Guerra Mondiale. Questi meccanismi sono: la crisi economica, le democrazie deboli uniti a una grave disoccupazione. Tutto ciò crea una miscela esplosiva che se non viene gestita e compresa, è inevitabile che conduca a certe scelte, a certe conclusioni. Da queste considerazioni amare e preoccupanti, da parte mia sono molto preoccupato, aggiungo la seguente frase di un veterano inglese, uno degli ultimi superstiti della Campagna d’Italia: “Sono ancora vivo e posso ancora testimoniare quello che è stato, ma quando sarò scomparso tutti potranno dire cose che non sono accadute, perché non ci saranno più testimoni visivi dell’epoca”. La scuola deve lavorare per inculcare negli studenti il concetto basilare dell’importanza della memoria e deve far comprendere ai ragazzi quello che è stato e quello che potrebbe accadere. Come veramente sono andati i fatti. Il populismo, il revisionismo, tutto porta a considerare vero ciò che non è stato, o se vogliamo a considerare falso ciò che è vero. E questo non è un bene».