L’istituzione scuola, decisiva per il Paese e incapace di rinnovarsi

Si erge una strana piramide a strati nella società italiana. Alla base stanno circa 800 mila insegnanti. Sopra questo primo strato stanno circa 8 milioni di ragazzi, che passano con gli insegnanti 210 giorni all’anno, per almeno 5 giorni alla settimana, per almeno 4 ore al giorno. Il terzo strato è quello dei genitori, due per alunno. Perciò 16 milioni. Ma poiché non tutti sono figli unici – le coppie con figlio unico sono solo il 51,6% – e poiché il tasso di natalità in questi ultimi trent’anni è oscillato tra un minimo storico di 1,19 figli per donna e un massimo di 1,46, possiamo calcolare al ribasso circa 10 milioni di genitori. Il quarto strato è quello dei nonni, quattro per ogni alunno. Ricalcolando in base a ovvie considerazioni pratiche e per comodità di buon senso, possiamo aggiungere alla piramide un strato di 20 milioni di nonni. Insomma: ci sono circa 30 milioni di persone, più o meno, che sono esistenzialmente interessate alle questioni scolastiche.

La piramide rovesciata che decide della qualità del Paese

Come è evidente, si tratta di una piramide rovesciata, che poggia sul vertice degli 800 mila insegnanti. Le cifre rivelano ciò che sfugge alla percezione quotidiana ormai attutita dall’abitudine: che la piramide è enorme, è piantata al centro della vita sociale e pubblica del Paese, è in equilibrio fragilissimo. Soprattutto: essa decide della qualità di un Paese.

Poggia sulla solidità della sua punta, cioè sugli ottocentomila docenti, ormai quasi tutti regolarizzati, a seguito della Legge 107/2015, la cosiddetta “Buona scuola”. Chi sono gli insegnanti? Dalle innumerevoli indagini statistiche possiamo estrarre un paio di dati: un’età media di 52 anni, un tasso di femminilizzazione all’83% – secondo i dati OCSE 2016 – con la punta della scuola elementare del 97%. Il tasso di scontentezza, di disagio, di frustrazione è molto alto. La ragione fondamentale è che la professione docente è giuridicamente senza carriera. Concretamente, significa che non si dà nessun riconoscimento stipendiale e di ruolo delle differenze di prestazioni, di funzioni, di abilità tra un docente e un altro. Tutti sono uguali a tutti, i demotivati e fannulloni, gli impreparati, i tiepidi, i “missionari”, chi ha “la vocazione” e chi no. Uguali davanti allo Stato che li paga, ai colleghi, agli alunni, all’intera società. Le retribuzioni degli insegnanti italiani, se paragonate con quelli dei 18 Paesi della statistica Ocse, in cui in alto sta il Lussemburgo e in basso l’Ungheria, stanno al 12 posto. Non sono alte, ma neppure troppo basse, paragonate a quelle di altri lavoratori pubblici e privati. È vero, tuttavia, che sono aumentate le fatiche, perché sulla scuola e quindi sugli insegnanti si scaricano tensioni sociali e familiari crescenti e la crisi delle agenzie educative, tra cui, in primo luogo, la famiglia. Alla tradizionale funzione di trasmissione del sapere si è aggiunta per l’insegnante quella dell’educatore.

Tutti gli insegnanti sono uguali a tutti

A conferma  dello stress in aumento, arrivano i recenti episodi di alunni che accoltellano l’insegnante, di genitori che picchiano la preside, di insegnanti che strattonano violentemente i bambini. Il rischio di burn out è crescente. Né si può dire che le procedure di preparazione siano cambiate di molto lungo i decenni: solo da poco è stato previsto un periodo di prova/praticantato. Ci si aspettava che il nuovo contratto – l’ultimo risale al 2009 – appena firmato dai tre principali sindacati, in attuazione della Buona scuola, avrebbe affrontato la crisi sociale e di ruolo degli insegnanti. In realtà, ha tolto di mezzo l’ultimo tentativo di valorizzazione professionale, quale era possibile attraverso la valutazione premiale del docente: il 60% dei 200 milioni di euro stanziati dalla legge 107/2015 è stato assorbito direttamente nello stipendio, il 40% sarà proposto, scuola per scuola, dal dirigente, ma sottoposto all’approvazione determinante delle rappresentanze sindacali. Insomma: la valutazione è sfumata.

Tutta colpa di un sindacato pervasivo e quasi onnipotente? In realtà, neppure la Buona scuola ha avuto il coraggio di costruire un nuovo Stato giuridico degli insegnanti. Nel lungo dibattito decennale che sta alle spalle, si era proposto di raggruppare gli insegnanti in tre grandi ripartizioni: iniziale, ordinario, esperto. Il passaggio da uno step all’altro non avveniva per via di anzianità, ma per valutazione. In questo caso, in cambio della valutazione – processo cui nessuno si sottopone volentieri – non si otteneva un modesto premio-mancetta in denaro, come ancora previsto dalla Legge 107/2015, ma un passaggio permanente di status e di stipendio. Viceversa, ha vinto ancora una volta il dogma ottuso dell’egualitarismo burocratico dei sindacati e della sinistra, che ne è subalterna.

Intanto le funzioni reali all’interno delle scuole si sono differenziate: c’è l’insegnante-apprendista, l’insegnante professionalmente maturo, l’insegnante che partecipa al governo della scuola, l’insegnante-tutor (figura quanto mai necessaria, se si volesse realmente accompagnare i ragazzi e le loro famiglie nella personalizzazione del percorso formativo-educativo), l’insegnante-mentor (qualora si cominciasse a pensare la formazione dei nuovi docenti come un processo che avviene sul terreno della scuola-bottega artigiana piuttosto che nelle aule universitarie). Dunque: almeno cinque figure, nelle quali già ora, in atto o in potenza, è articolata la professione docente. Ora, è evidente che se lo Stato non riconosce e non valorizza le professionalità dei suoi docenti, sui quali pesa l’enorme piramide sociale descritta all’inizio, neppure lo farà la società civile.

Facciamo un salto in Finlandia

Facciamo un salto in Finlandia, la cui classe dirigente ha investito seriamente sull’educazione. Sono in servizio 43 mila insegnanti per 5 milioni di abitanti.

Su 100 giovani che si presentano negli Istituti di formazione dei docenti, il 90% viene respinto attraverso una selezione durissima. Una volta abilitato, l’aspirante docente non passa attraverso i concorsi: si presenta direttamente al Preside di una scuola, che lo valuta e eventualmente lo assume. Lo stipendio-base di un neo-insegnante è di circa 2.500 euro mensili lordi, con una tassazione intorno al 23 per cento, per 37 ore settimanali di insegnamento. Ogni due anni il contratto nazionale prevede degli scatti di aumento; chi supera i dieci anni di anzianità, o arriva a fare il preside, può raggiungere i 4.500 euro lordi mensili. Ogni insegnante ha la possibilità di aumentare le proprie entrate scrivendo libri di testo, facendo consulenze, mentre ogni ora in più passata in classe viene pagata a parte. Ogni anno sono previste 13 settimane di vacanza. C’è da meravigliarsi se da un’inchiesta di qualche anno fa, relativa alla professione preferita per l’eventuale partner, è risultato che oltre il 50% degli alunni/e sposerebbe una/un insegnante?