La strage di Latina: violenza e solitudine vanno a braccetto. I paradossi di una società iperconnessa

In una stanza dell’ospedale San Camillo di Roma c’è una donna, Antonietta Gargiulo, 39 anni, che lotta per sopravvivere. È sedata e incosciente e non sa che ieri le due figlie di 7 e 14 anni sono morte, uccise da suo marito, Luigi Capasso; non sa che alla fine anche lui si è suicidato. Noi, d’altra parte, non sappiamo se sia riuscita a salutare con un bacio le sue bambine ieri mattina, prima di uscire per andare al lavoro, prima di essere atterrata dai colpi di questo folle carnefice in garage. Forse l’ultima volta che le ha viste dormivano ancora.
Non ci interessa puntare il microscopio sulla tragedia di Latina, andare a scavare morbosamente – come già hanno fatto i conduttori dei talk show televisivi – nelle crepe della crisi di coppia, nei testi degli esposti ai carabinieri, nei rapporti dei servizi sociali. Ci preme piuttosto tracciare un cerchio un po’ più ampio, osservando il contesto, l’orizzonte in cui il dramma si è consumato. Le porte che sono rimaste chiuse, i segnali di disagio che nessuno ha saputo raccogliere, il tessuto sfilacciato delle relazioni. Solitudine, disperazione e violenza spesso vanno a braccetto. Questa settimana nel nostro dossier parliamo dei tanti volti della solitudine, che per uno strano paradosso nell’era dei social network in cui tutti sembrano sempre così connessi si fa sentire in modo più acuto di qualsiasi altra epoca, diventando una piaga sociale. Il filosofo Salvatore Natoli ci offre una chiave di lettura preziosa: dice che le relazioni di comunità stanno sparendo. Sono cooperative, istituzioni e servizi a creare i tessuti, proprio per colmare i vuoti di una società frammentata dall’individualismo estremo, in cui l’attenzione all’altro è considerata superflua e perfino inopportuna. Eppure chiusi come siamo nell’illusione di bastare a noi stessi diventiamo ancora più fragili, più esposti a follie momentanee e gesti estremi come quello di Latina, che nessuno appare più in grado di controllare, contenere, arginare. Il giorno dopo tutti si chiedono se questo dramma poteva essere previsto ed evitato. Le responsabilità, però, non appartengono soltanto alle forze dell’ordine, ai servizi sociali, agli amici, parenti, vicini di casa. Corrono molto più lontano: si nascondono, per esempio, nell’idea fluida e precaria che abbiamo delle relazioni, nell’idea che la famiglia sia un piccolo mondo a sé stante, autonomo e autarchico, piuttosto che mattone, colonna e motore della società, sostenuto da legami più ampi di solidarietà e aiuto reciproco. Non servono armi per contrastare questa violenza, per impedire nuovi drammi. Non serve, come incautamente ha affermato il presidente americano Trump, mettere una pistola in mano alle potenziali vittime. Non aiutano nemmeno i giudizi lapidari o le parole d’odio verso “il mostro” di turno. Il rimedio è molto più difficile, radicale e serio. Passa da sguardi, gesti quotidiani. Dall’ascolto, da un atteggiamento di apertura, sensibilità, attenzione. Da un impegno serio per costruire legami di comunità a partire da piccole cose. Nessuno può chiamarsi fuori. Come scriveva John Donne “Nessun uomo è un’isola, intero in se stesso. Ogni uomo è un pezzo del continente, una parte del tutto”.