Le acrobazie di una mamma freelance: “Non ci serve assistenzialismo, ma possibilità concrete”

Ormai mi ero rassegnata: anche il secondo colloquio per un lavoro di tre mesi era andato male, nessuna e-mail ricevuta entro la metà del mese, come avevano detto in caso di esito positivo. E invece, sorpresa, l’e-mail arriva: sono stata selezionata per il corso di formazione per svolgere questo lavoro, un corso di formazione di sei settimane, al mattino. Nessuna garanzia per il lavoro: al termine del corso ci sarà un’ulteriore scrematura, ma io so che ce la metterò tutta e se ho superato il primo scoglio, la meta è comunque vicina ed avrò comunque imparato qualcosa di nuovo. Ma la mia gioia e l’entusiasmo si scontrano subito con la realtà e con le rimostranze dei familiari: “E ora come farai con la bambina? E se poi dopo questo corso non ti confermano al lavoro? Per fare cosa poi, un lavoro di soli tre mesi? Per andare a spendere metà del guadagno in trasporti e babysitter?”. Me lo diceva la mia amica Valentina, diventata mamma prima di me, che finché i bambini non vanno all’asilo non vale la pena darsi da fare per cercare un’occupazione: sono più i costi per babysitter o eventuale asilo nido che quello che si guadagna realmente. Sto chiedendo preventivi a destra e a sinistra per capire quale sia la soluzione migliore per me e la bambina e nel frattempo risuonano nella mia testa le parole di un’altra amica, che mi aveva detto che lei, senza un lavoro fisso, non avrebbe messo al mondo un figlio. Chissà forse sono stata sprovveduta, eppure in questi 15 mesi di vita a mia figlia non è mancato mai nulla, complice la fortuna di aver trovato un lavoro mentre ero incinta, che doveva essere di soli sei mesi e invece è diventato poi una sostituzione di maternità, che posso gestire da casa, ma che a breve finirà. Penso al giorno in cui ho fatto il colloquio collettivo: ero rimasta particolarmente colpita dalla testimonianza di una donna di 53 anni (la più giovane del mio gruppo di dieci persone aveva 22 anni), che raccontava di essersi licenziata dieci anni fa per poter seguire la famiglia, perché in quel momento non poteva fare altrimenti. Raccontava di aver mandato cv su cv e in uno degli ultimi colloqui la responsabile del personale le ha detto: “ma lei in questi ultimi dieci anni dove è stata?” “Io c’ero, non è che sono morta…”. Si parla spesso del tasso di natalità sempre più basso, eppure quanto si fa davvero per aiutare le famiglie e soprattutto noi mamme? Del bonus bebè ce ne facciamo davvero poco. A noi servono sostegni sociali continuativi. Serve che ai colloqui non ci chiedano se siamo sposate, se abbiamo figli, quanti anni hanno. Servono asili alla portata di tutti, o meglio asili aziendali. Serve che si inizi a parlare di genitorialità condivisa, che anche i padri possano avere la possibilità di stare a casa con la paternità a seguire maggiormente i figli. Se dobbiamo formare gli adulti di domani, e non vogliamo delegare questo compito interamente ad altri, che ci siano date davvero queste possibilità. Che si possa scegliere davvero tra lavoro e famiglia, non che si sia costrette a farlo, spesso assillate dai sensi di colpa per l’una o per l’altra scelta. Servono politiche sociali di questo tipo, non un assistenzialismo una tantum. E serve che anche l’ambiente familiare non si limiti a considerarci solo come mamme, ma come persone, che come tali hanno ancora sogni e desideri e la voglia di rimettersi in gioco al di fuori dalle mura domestiche.