Tornare nel mondo dopo il carcere: com’è difficile ricostruire una vita con il peso dell’errore

In occasione delle feste di Pasqua, vi proponiamo quattro storie bergamasche di resurrezione.

Sono morto il primo dicembre del 2010. Certo, non come convenzionalmente si intende la morte, ma come si può vivere la caduta in un profondo abisso in attesa di tornare a vivere. Nevicava quel giorno ma il ricordo che resta, a distanza di anni, è solo il freddo. La mia morte aveva il colore grigio dei muri di cemento di una cella del carcere, aveva il suono dei pesanti cancelli che sbattevano, dei passi cadenzati degli agenti di custodia lungo corridoi vuoti.
L’esperienza del carcere è innegabilmente una specie di morte. E’ il momento della pausa forzata in cui chi, come me, ha sbagliato e si trova a dover fare i conti con sé stesso e con gli altri. E’ il luogo in cui il silenzio tutt’intorno lascia che la coscienza – così silenziosa nella vita di tutti i giorni – si faccia sentire in un incessante monologo di rinfaccio. Ed è il peso della colpa, del rimorso, dell’errore che alla fine schiaccia a terra fino a togliere il respiro. La morte del carcere sembra essere infinita. Tutt’intorno sono spazi ristretti, l’orizzonte è tagliato da muri invalicabili, da sbarre che frammentano la visuale, e senza un orizzonte un uomo è morto, travolto dalla propria solitudine. Il cammino verso la “resurrezione” è stato lungo e frastornante. E’ difficile ricostruire una vita dopo l’errore. E’ imbarazzante ritornare nel mondo sentendosi addosso gli occhi degli altri. E’ frastornante trovarsi di colpo con le sbarre alle spalle, in mezzo a una strada senza sapere esattamente cosa ci sia intorno. Mi è successo. Risorgere a vita nuova non è semplice, mi ci è voluto del tempo. Molto tempo. Ci è voluto l’infinito amore di una moglie, lo sterminato affetto di quegli amici rimasti per cui nulla è cambiato, c’è voluto l’aiuto di chi, in questo faticoso cammino, ha accettato di accogliermi nonostante tutto. Ricostruire l’esistenza mattone dopo mattone, partendo solo da un cumulo di macerie è una sfida. Ma in questa luce di resurrezione resta un angolo scuro che mi porto dietro, un punto buio che vedo ancora con la coda dell’occhio. E’ il ricordo, tutt’altro che dissolto, della mia esperienza di morte. E’ lì, come un memento, a tenere alta l’attenzione nelle scelte di tutti i giorni, a indirizzare le decisioni verso il meglio, perché questa nuova vita possa non essere più l’ascesa ad un ghiacciaio in scarpe da ginnastica, ma un cammino attento e sicuro.