Verso una cultura dell’incontro: così il centro etnoclinico aiuta a superare gli stereotipi sui migranti

Basta parlare di migranti economici, richiedenti asilo o dublinati: bisogna andare oltre le categorie e considerare le persone, vedere il meticciato e la contaminazione non come qualcosa di negativo bensì come un arricchimento. Questo è il concetto che Alfredo Ancora, psichiatra e psicoterapeuta, membro dell’International Society for Academic Research, ha sottolineato durante la presentazione del suo libro “Verso una cultura dell’incontro – studi per una terapia transculturale” organizzata da Cooperativa Ruah e Confcooperative Bergamo. Il volume si rivolge ad operatori della salute mentale quali infermieri, psicologi, assistenti sociali, psichiatri, che lavorano sul territorio quotidianamente in strutture deputate alla cura e all’accoglienza. Le proposte teorico-pratiche presentate offrono infatti un aiuto a chi si sente un po’ spaesato di fronte a un rifugiato, richiedente asilo, migrante, che talvolta mette in difficoltà le griglie conoscitive a cui si è normalmente abituati. Circa 2.330 i richiedenti asilo attualmente presenti in Bergamasca. Ma come fare a cambiare queste griglie conoscitive? “Bisogna lavorare soprattutto sul pensiero, pensare al tipo di bagaglio e comportamenti che ci portiamo dietro rapportandoci con queste persone. Chi lavora in queste situazioni dovrebbe essere un operatore di confine: una persona che sta sulla soglia, che attraversa le culture, qualcosa lascia e qualcosa prende, che sconfina. È un de-ruolizzarsi per ruolizzarsi di nuovo”. Ed è proprio l’approccio del Centro etnoclinico Fo.R.Me. (Centro Formazione, Ricerca e Mediazione) della Cooperativa Ruah, attivo in Bergamasca dal 2016, un luogo di orientamento, riflessione, e cura etnoclinica che mira a contribuire al miglioramento delle condizioni di vita delle persone che direttamente o indirettamente vivono il processo migratorio. Le modalità di lavoro presso il Centro prevedono spazi che siano informali e accoglienti, il più possibile attenti a non riprodurre contesti istituzionalizzanti. Durante il primo anno di lavoro sono state 30 le persone prese in carico dal Centro etnoclinico; 50 quelle nel 2017. “Nei tipi di intervento che si fanno vengono ‘trasgredite’ le regole classiche – spiega Rita Finco, pedagogista e antropologa, responsabile del Centro etnoclinico -. Il set terapeutico cambia, non è quello classico. Personalmente non utilizzo più la parola migrante, poiché fa sparire il concetto di persona: preferisco parlare di persone venute da lontano”. Finco racconta di un intervento di un’ora e mezzo, dove l’équipe è stata in silenzio, davanti ad un ragazzo minorenne che non alzava la testa, tenendola appoggiata sulla spalla dell’operatrice del centro di accoglienza, e a un certo punto hanno preso una coperta per coprirlo, come avrebbe fatto una mamma con il proprio figlio. Interventi non sempre facili, come il caso di un altro ospite, inviato dalla prefettura perché abbracciava le persone per strada, e queste ultime erano spaventate. Questo ragazzo in realtà voleva solo tornare nel suo Paese d’origine, ma per capire la situazione vi sono state delle difficoltà linguistiche ed è stato necessario l’affiancamento di un mediatore culturale, con il quale non sempre l’ospite voleva interagire. Attraversare le culture, come indica il termine stesso transculturale, significa anche rimettersi in discussione: “Le esperienze delle migrazioni cominciate a metà degli anni ‘80 – ha continuato Pietro Barbetta, direttore del Centro Milanese di Terapia familiare e psicoterapeuta del Centro etnoclinico – ci hanno deterritorializzato ed obbligato a pensare in modo diverso: non solo in relazione alle culture altre, ma anche a quella di appartenenza”. “Il cambiamento non è univoco – ha concluso Fulgenzio Rossi, medico psichiatra del Centro etnoclinico e già direttore del dipartimento di Salute mentale dell’azienda ospedaliera di Treviglio -, ma transculturale o meglio transformativo. Incontriamo l’Altro, e con esso l’alterità che c’è in noi ma non abbiamo saputo riconoscere. In alcune circostanze spesso si fanno domande su domande, ma non se ne ricava nulla, mentre quando spostiamo il discorso su un altro aspetto, in modo inaspettato si aprono altre strade. L’Altro smette di essere Altro per essere un proprio simile con cui dialogare”.