I genitori a bordo campo alle partite dei figli: vietato perdere il senso della misura

E se si sono finiti i compiti (come si raccontava settimana scorsa)? Non mancano altri doveri per il genitore contemporaneo, soprattutto nel week end. Sono doveri piacevoli ma che impongono ugualmente alcune regole di comportamento. Sto alludendo agli accompagnamenti sportivi che riguardano davvero tante mamme e papà. Un incontro di basket, la sfida a pallavolo, ma soprattutto quella che una volta si chiamava semplicemente la partita di pallone e che oggi necessita di specifiche indispensabili (a 11, a 7, calciotto, calcetto, etc.). Difficile star dietro a tutte le sottocategorie in cui si suddivide il calcio dilettantistico a cui i ragazzi accedono prima ancora di essere “pulcini”, ma ancora più arduo è seguire lo sciamare di divise colorate di una dozzina di scalmanati ragazzi che corrono dietro ad un pallone come se tutto il mondo in quel momento fosse lì. Un caos apparente, però, perché sa ricomporsi secondo una disciplina tanto più efficace quanto più autorevole è la figura dell’allenatore. La sua capacità di “tenere” il gruppo è fondamentale: chiamare i giocatori per nome, dare consigli e indicazioni col tono, l’efficacia e il tempismo giusti, riuscire a “fare gruppo” mantenendo un ruolo superiore di mentore e guida, questo è il compito avvincente del mister. E i genitori? I genitori, anche in questo campo – mi si permetta il gioco di parole – hanno molto da imparare. Essi, nonché talvolta i nonni, i parenti e gli amici, vivono una partita parallela sugli spalti (quando ci sono!) a bordo del terreno di gioco, a prescindere che sia d’erba o sintetico come capita sempre più spesso. I tornei prevedono l’alternarsi di gare in casa e in trasferta e così il gruppo accompagnatore può assaggiare lo spirito del luogo di ogni circolo o polisportiva dove comune – scritto a caratteri cubitali in cartelloni amichevoli ma perentori – è l’invito ad una lealtà che si scopre non essere del tutto scontata quando a giocare (per partecipare, ma possibilmente anche per vincere) è il proprio figlio. E allora guai a prendersela con l’arbitro o con l’autoarbitraggio dei dirigenti delle due squadre; ma è anche sconsigliato incitare i ragazzi in modo troppo sguaiato, men che meno aizzarli contro gli avversari, superando quella soglia che separa il sano agonismo da uno spirito di sopraffazione che nulla ha a che vedere con il piacere della partecipazione sportiva. I comportamenti a cui sono tenuti i ragazzi sui campetti educano l’atteggiamento degli adulti. Alla partita di nostro figlio siamo chiamati ad essere ancora più ligi di quando guardiamo in tv la squadra del cuore. Paradossalmente è come se fossimo invitati ad un relax forzato. I piccoli giocatori, con il loro impegno e passione, ci chiedono di mettere da parte le nostre frustrazioni o mal riposte ambizioni. I desideri dei grandi non hanno nulla a che vedere col divertimento senza tempo di un gruppo di ragazzi che farebbero di tutto pur di non saltare quelle due ore di libertà che da sempre si chiamano sport.