“Fucili o murales” un documentario racconta la lotta del popolo saharawi per la sua indipendenza

È stato proiettato in Bergamasca – più precisamente a Casnigo – nei giorni scorsi il documentario “Fucili o murales” del regista indipendente spagnolo Jordi Oriola Folch, che racconta la lotta non violenta del popolo saharawi per la sua indipendenza. L’evento è stato organizzato dal Circolo Fratellanza di Casnigo e dall’associazione senza scopo di lucro Mauja Sahrawi, di Nembro, che dal 2013 ha preso a cuore questa causa e, oltre a sensibilizzare la cittadinanza su questa tematica, durante l’estate si occupa dell’accoglienza di alcuni bambini saharawi. Il popolo saharawi è originario del Sahara Occidentale, un territorio situato nel nord Africa, tra Marocco, Mauritania ed Algeria. Dal 1975 il Marocco rivendica la sovranità del Sahara Occidentale e lo occupa militarmente ed illegalmente. Sono anni di lotta con il Fronte Polisario, il movimento legittimo che mira ad ottenere l’indipendenza di questo popolo. Dal 1991, anno del cessate il fuoco, il popolo saharawi aspetta il referendum di autodeterminazione per potersi finalmente proclamare indipendente. Alla proiezione del documentario era presente il regista, che ha spiegato la situazione critica a cui si è arrivati: “Dopo 43 anni di attesa il popolo è esasperato: molti giovani si stanno radicalizzando, vorrebbero tornare alla lotta armata. Ma l’indole del popolo saharawi non è violenta: questo pensiero di dover ritornare alla guerra per risolvere la situazione di stallo è dovuto alla frustrazione che la stessa comporta”. Il documentario si pone l’obiettivo di far conoscere ancora di più questa lotta pacifica in tutto il mondo – proiezioni sono previste in tutta Italia fino a fine aprile -, rivolgendosi anche allo stesso popolo saharawi, ricordandogli gli obiettivi finora raggiunti, che ai più giovani possono sfuggire. “Per poter filmare nei territorio occupati – ha spiegato il regista – bisogna entrare illegalmente: il Marocco vuole dar all’estero l’impressione che in questi territori si viva in pace, ma la realtà è ben diversa. Ho filmato all’interno delle case degli attivisti, facendo venire da me le persone, senza mai uscire per non rischiare di essere scoperto, mettendo così in pericolo chi mi ospitava”. Girato tra i campi profughi di Tindouf in Algeria e nei territori occupati, a Laayoun, il documentario porta sullo schermo le voci di diversi attivisti e la difficile realtà di sopravvivenza di questo popolo, tra discriminazioni, repressione, sfruttamento illegale delle proprie risorse naturali (soprattutto fosfati e pesce). Come Mohammed Daddach, uno dei primi prigionieri politici saharawi, che ha passato 25 anni in carcere. Fu condannato alla pena di morte, commutata poi in ergastolo e rilasciato nel 1999 dopo anni di campagne da parte di Amnesty International ed altre organizzazioni umanitarie. C’è anche chi ha dovuto fuggire in esilio e ora si trova come rifugiato politico in Europa, cercando appoggi politici per la causa. Poi vi sono i giovani, come Mamine Hachimi, che insieme ad altri ragazzi fa parte dell’equipe mediatica, creata nel 2009 per raccontare ciò che succede realmente nei territori occupati, filmando di nascosto, da dietro i muri, e rischiando ogni volta arresti e torture. Per lui l’intifada (rivolta, ndr) si fa anche attraverso i media, mostrando la violenza dell’occupante verso un popolo disarmato”. “Viviamo grazie agli aiuti dell’Onu – dice Nuha Abidin, dell’associazione dei torturati e scomparsi, che vive nel campo profughi in Algeria -. È triste: da più di 40 anni siamo dei rifugiati, ma la situazione doveva essere provvisoria”. Vi è poi il muro della vergogna, il secondo più lungo al mondo, costruito dal Marocco nel mezzo del deserto dal 1980: 2.700 km, presidiato da 120 mila soldati, con mine sparse ovunque che ogni anno mietono 20 giovani vite. Un muro che impedisce ai giovani saharawi che vivono nei campi profughi e in una stretta striscia di terra liberata dal Fronte Polisario, di accedere ai territori occupati. “Abbiamo creato il nostro modo di lottare, dobbiamo conservare la cultura della non violenza – ribadisce nel documentario Aminatou Haidar, attivista per i diritti umani saharawi, in passato candidata per il Nobel per la pace -.  Purtroppo i nostri giovani non credono più alla resistenza pacifica. Ma noi, che abbiamo vissuto la guerra e ne conosciamo le conseguenze, speriamo che non si ritorni ad essa: abbiamo bisogno dei nostri cari, così come ne ha bisogno il popolo marocchino. La non violenza permette di restare umani. Abbiamo trasformato la guerra sul campo in una guerra diplomatica e nel campo dei diritti umani. E la stiamo vincendo, senza usare armi”.