L’ottimismo di San Giovanni XXIII: non solo un’inclinazione di carattere, ma una visione di fede

La personalità di Roncalli fu caratterizzata da un ottimismo, da un atteggiamento di fiducia, che sarebbe riduttivi ridurre solo a un’inclinazione caratteriale, unita ad una dose di ingenuità. In realtà tale atteggiamento era dovuto ad una visione di fede, alla virtù della speranza. Essa si basava sulla convinzione che il destino dell’umanità e della Chiesa fosse nelle mani di Dio e che nei suoi disegni Egli perseguisse progetti di pace e non di afflizione, destinati ad affermarsi, nonostante le smentite della storia. Questo impediva di condannare il tempo presente in nome di un passato ritenuto migliore, perchè giudicato cristiano. In realtà, alla luce della fede, il presente, pur problematico, contiene possibilità di bene per annunciare e tradurre il Vangelo nella vita degli uomini ed il passato non appare così integralmente cristiano come potrebbe apparire. L’assenza di tali considerazioni paralizza ogni iniziativa pastorale, favorisce l’inerzia più pericolosa ed impedisce alla Chiesa di annunciare Cristo agli uomini. Il superamento della tentazione della condanna del proprio tempo e la fiducia nelle risorse inesauribili del Vangelo, nella certezza che i destini della storia sono nelle mani di Dio, è stato espresso chiaramente da Giovanni XXIII nel discorso di apertura del Vaticano II, in polemica con i profeti di sventura: «Nel presente mutamento storico la Provvidenza ci sta conducendo ad un nuovo ordine di rapporti umani, che, per opera degli uomini e per lo più al di là delle loro stesse aspettative, si volgono verso il compimento di disegni superiori e inattesi; e tutto, anche le umane avversità, dispone per il maggior bene della Chiesa». Siamo di fronte ad un’affermazione della virtù teologale della speranza, che è progressivamente maturata in papa Giovanni fin dai primi tempi del suo apostolato e che si è rafforzata nonostante il dramma delle guerre.

La sua iniziale giustificazione dell’intervento italiano nella I guerra mondiale divenne sempre più problematica per il drammatico prolungarsi del conflitto e il rifiuto opposto alla proposta di pace di Benedetto XV con la Nota del 1 agosto 1917 soprattutto da parte del governo italiano. Il cappellano Roncalli esprime un giudizio molto severo, tuttavia si guarda bene dall’affermare l’illegalità dello Stato Italiano e di vedere nella disfatta di Caporetto dell’Ottobre del 1917 un castigo di Dio e un segno della sua predilezione per gli Imperi Centrali di Austria e Germania, come sosteneva invece una parte significativa del clero bergamasco. Tra questi figuravano alcuni professori del Seminario, esplicitamente favorevoli alla Triplice Alleanza, con i quali Roncalli si trovò coinvolto in accese discussioni. Secondo lui vivevano fuori dal tempo, incapaci di capire il presente, oggetto di un giudizio sistematicamente negativo. Il compito di un sacerdote invece era quello di cogliere il bene per elevarlo e moltiplicarlo. Rimproverava loro una critica corrosiva di tutto e di tutti, dettata dal disprezzo e dal pessimismo. Invece era necessario un atteggiamento costruttivo e fiducioso, ispirato all’ottimismo. Scriveva il 9 luglio del 1918: «Ma che tutta l’anima sacerdotale sia volta a deplorare con astio, con acre ironia, quasi con malcelato desiderio del fuoco dal cielo questi difetti, questi errori dei governi e delle sette, senza che per la patria ci sia una parola buona mai mai, e tutto sia volto in ridicolo, in sospetto, in condanna; mentre è pur certo che anche in Italia in mezzo a tanto male della guerra c’è pure tanto bene e non si può ammettere che proprio tutti quelli che comandano siano dei malintenzionati, questa abitudine di mente, di spirito, di linguaggio io non la capisco, e tanto meno comprendo come la si possa comporre con i buoni principi evangelici di cui siamo maestri ai popoli. Certe mentalità mi sembrano eccellenti per distruggere, incapaci di edificare. Io faccio la figura dell’ottimista impenitente. Eppure non so essere diversamente. Non ho mai conosciuto un pessimista che abbia concluso qualcosa di bene. E siccome noi siamo chiamati a fare il bene, più che a distruggere il male, ed edificare più che a demolire, per questo parmi di trovarmi apposto e di dover proseguire per le mie vie di ricerca perenne del bene, senza più curarmi dei modi diversi di concepire la vita e di giudicarla. Ah i santi, i santi come eran pratici, ardenti e buoni, soprattutto buoni!», E in altro passo del suo Diario ribadiva: «Devo ripetere il convincimento che mi son fatto: il mondo è molto più cattivo, ma anche molto più buono di quanto noi pensiamo e il compito nostro sacerdotale più che di sciupare lunghe ore in comuni recriminazioni che a nulla giovano, è di lavorare e di cogliere il bene dovunque si trovi ed alla luce incontaminata dei principi elevarlo e moltiplicarlo. Dico forse male così?».

In questi due brani vi sono frasi che anticipano la descrizione dei profeti di sventura, del tipo: “eccellenti per distruggere, incapaci di edificare”; oppure che non ha mai visto “un pessimista che abbia concluso qualcosa di bene”. Al contrario egli, impenitente ottimista, è deciso a proseguire “per le mie vie di ricerca perenne del bene, senza più curarmi dei modi diversi di concepire la vita e di giudicarla”, seguendo l’esempio dei santi. Queste espressioni esprimono già lo stile pastorale di Roncalli di apertura e di simpatia verso gli uomini del proprio tempo, mai demonizzati, ma amati pur con la necessaria attenzione a rilevare i difetti per correggerli, ma soprattutto a valorizzare il bene presente, base sicura da cui iniziare un fruttuoso dialogo. [GIOVANNI XXIII, Io amo l’Italia. Esperienza militare di un papa, Libreria Editrice Vaticana, 2017, pp. 78-89].