Spagna, la violenza di gruppo e le proteste: “Non c’è posto per lo stupro nella giustizia degli uomini”

“Non c’è posto per lo stupro nella giustizia degli uomini”. A scriverlo è la scrittrice Roberta Marasco nel suo blog Rosa Per Caso, a commento della sentenza che ha diviso la Spagna: quella relativa allo stupro di una ragazza diciottenne da parte di cinque uomini, nel 2016, durante la festa di San Fermin di Pamplona. Anzi no, non stupro: secondo il giudice che ha letto la sentenza, c’è stato abuso ma non stupro. Pena di 9 anni anziché di 20, come richiesto dall’accusa. Non c’è stato stupro perché la ragazza non ha gridato, non ha detto no, non ha fatto capire che non voleva.
Siamo nel 2018, ma certe sentenze sembrano uscite dritte dai secoli scorsi. Forse è questa la chiave di tutto. Forse è lì che ci vogliono riportare.
Mentre leggevo la notizia della sentenza e le motivazioni del giudice spagnolo, mi sono resa conto che ciò che mi feriva più di tutto era il silenzio. Della stampa italiana, di tante donne, di tutti noi. L’indignazione, forse: ma solo su qualche pagina o blog di quelle che vengono definite femministe con spregio sempre più evidente. Dove sono le proteste, che fine ha fatto #metoo, perché questa notizia non ci fa accapponare la pelle?
Ché qui non si sta parlando di attrici che hanno ceduto o meno al ricatto sessuale mettendo sul piatto della bilancia il proprio successo professionale, non si parla neanche di chi protesta mettendosi un vestito nero per sentirsi molto ribelli e contro-il-maschilism-imperante: è molto, molto di più. Si parla del fatto che chiunque di noi – e lo ripeto, chiunque di noi – domani potrebbe uscire dalla porta, essere violentata da cinque uomini e non avere nemmeno il diritto al terrore che paralizza, pena l’esclusione dal diritto sacrosanto alla difesa. Si parla dei nostri diritti, sempre più spesso calibrati sulla percezione maschile di ciò che noi – NOI – abbiamo subito.
Eppure siamo zitte. Avevamo tutte tanta paura dello spettro ISIS, fino a poco tempo fa: guarda cosa fanno, che barbarie, le loro donne come le conciano, noi non ci faremo mai sottomettere così. Eppure sentenza dopo sentenza, in tutta Europa ci stanno subordinando a cavilli lessicali – è abuso o è stupro? – che si traducono in meno tutele per noi e più assoluzione per chi ci ha violate. Caso dopo caso, si trovano sempre nuove discriminanti: superato il “com’eri vestita?”, si è passati a “quanto forte hai gridato?”, ai “ma quei gemiti potevano essere di piacere?”, ai “devi essere più chiara nel far capire il tuo no se non vuoi essere violentata in un vicolo da cinque sconosciuti, altrimenti sei consenziente”. Assoluzione dopo assoluzione, la nostra libertà d’azione trova margini sempre un po’ più ristretti.
E tutto questo con la complicità della nostra assuefazione, del nostro silenzio. Alla nostra attenzione agli abusi ma solo quando c’è da mettere un hashtag su Twitter. Al nostro essere combattive, ma solo a parole. Al nostro accettare passivamente di tornare gradualmente a quel passato in cui la vita e la storia erano scritte solo dagli uomini per gli uomini.
“La verità – continua ancora la scrittrice Roberta Marasco, una delle poche a non tacere mai, nemmeno per estenuazione davanti al numero crescente di casi simili – è che non c’è spazio per lo stupro nella giustizia maschile, non in una società in cui lo stupro è segno di virilità, in cui fa capolino in battute di dubbio gusto senza che nessuno si scandalizzi, le stesse battute dei cinque del Branco, che prima della festa annunciavano agli amici di voler violentare tutto quello che vedevano, e giù risate. Non c’è giustizia possibile in una società in cui lo stupro continua comunque a dare meno fastidio di una donna che denuncia, e che ha il coraggio di farlo senza neanche un osso rotto e senza aver gridato No davanti al telefonino che la filmava o aver fatto almeno una smorfia di dolore, quelle che il giudice ha cercato sul suo viso senza trovarle”.