Il silenzio del sabato: Mariantonia Avati racconta la morte e la resurrezione di Gesù con gli occhi di Maria

Il titolo del volume “Il silenzio del sabato” (La nave di Teseo 2018, Collana “Oceani”, pp. 194, 17 euro) di Mariantonia Avati fa riferimento a quel periodo che va dall’Ultima cena del Giovedì Santo alla Domenica di Risurrezione. Una fase di sospensione temporale ed emotiva non descritta dal Vangelo. Gesù giace nel sepolcro piantonato dai soldati romani, i discepoli sono nascosti, preda di totale smarrimento. Tutto è dunque immobile. Maria, la madre di Cristo, dove si trova in questo Sabato Santo privo d’immagini e di voci e per quale motivo i quattro evangelisti hanno deciso di non riferire pensieri e parole della donna, che ha visto crocifiggere suo Figlio?

Nel suo riuscito e realistico romanzo d’esordio, da leggere soprattutto ora nel mese che tradizionalmente è dedicato alla Madonna, Mariantonia Avati, figlia del celebre regista Pupi Avati, da noi intervistata, dà voce alle parole di Maria nel silenzio del Sabato Santo. Quaranta ore tra la morte e il momento in cui il Figlio di Maria risorgerà, “cronaca immaginaria di ciò che lei compì durante i tre giorni che cambiarono la storia del mondo”.

Signora Avati, nell’Introduzione scrive che la grandezza di Maria è di essere una madre vera, quindi “fragile, timorosa, insicura”. È da questa riflessione che dobbiamo partire per comprendere le pagine del libro?

«Esatto. Ogni anno, nel periodo che precede la Pasqua, ascoltando le letture, mi chiedo quali siano stati i pensieri di Maria, le sue azioni, le parole, gli incontri. Credo che la sua grandezza sia stata quella di aver abbracciato il progetto che la riguardava da essere umano, dotata di nessuna eccezionalità se non quella di aver fiducia nel suo Dio, di avere saputo dire di “sì” senza avere certezza di nulla. Lo stesso angelo le annunciò tutto ma anche nulla, di certo non l’epilogo atroce che l’avrebbe attesa. Eppure lei disse di “sì” per fede in quella vita che sono certa lei abbia ritenuto sempre meravigliosa. Maria è immensa, perché somiglia a tutte noi. Ricordiamoci che anche Gesù ha vacillato. Perché non immaginarlo anche di lei? Quanto le è costato arrendersi alla sua storia? Non si sa nulla del suo percorso mentale. Io ho fantasticato ricostruendo un suo viaggio, anche lei dalla morte alla resurrezione».

“Alzò lo sguardo e vide suo figlio accogliere la fine”. Maria vede morire suo Figlio mentre gli bacia i piedi trafitti dal chiodo e dopo il loro ultimo dialogo: questo è uno dei momenti più strazianti e commoventi del volume. Ce ne vuole parlare?

«Accendiamo la televisione, vediamo immagini di guerra con madri che abbracciano i cadaveri dei loro figli, vediamo bambini lasciati morire da uno stato che vieta ai genitori di salvarli, donne che assistono impotenti alla morte dei loro piccoli per denutrizione. Quante volte vediamo sugli schermi o attorno a noi, negli ospedali, per strada, sui giornali lo sguardo di Maria? Ogni giorno ci imbattiamo nelle sue lacrime. E volgiamo lo sguardo dall’altra parte. La maggior parte di noi lo fa perché sa che il dolore per la perdita di un figlio è un tormento insostenibile. Eppure la cosa più atroce da sopportare, e lo dico anche nel libro, per una madre non è quella di non essere riuscita a salvare la propria carne dalla fine ma sapere che prima della morte lui ha avuto paura».

Per la stesura del testo quanto è stata importante la Sua esperienza di madre?

«Fondamentale. Da quando una donna decide di diventare madre i sensi si amplificano, si acquisisce morbidezza di pensiero e giudizio. E non parlo necessariamente di maternità biologica. Le donne hanno una grande occasione: quella di cavalcare una dote innata, quella di essere ricettive e accoglienti. Lo sono in tutti i sensi, emotivo, psicologico. Il giorno in cui accetteranno questa loro qualità, riconoscendone la potenza, allora saranno più consapevoli e forti. Io l’ho capito tardi, a 50 anni. Spero che le ragazze di oggi lo scoprano presto, perché da quel momento in poi la qualità della propria vita cambia, si arricchisce, si carica di senso. Allora progettare diventa bello e possibile».

Il tema iconografico più ricco e complesso dell’Arte cristiana è quello della Madonna, la più antica immagine conosciuta è della catacomba di Priscilla a Roma risalente alla metà del III Secolo. Se pensa a un dipinto che meglio raffigura l’aspetto femminile di Maria e la sua tenerezza verso il Bambino che tiene in grembo, quale Le viene in mente?

«Non tanto un dipinto specifico, ma una immagine che ricorre in svariate interpretazioni, quella della Madonna di Pompei e del piccolo col rosario in mano. Non esistono altre immagini così potenti per me, almeno non tanto da ricordarmi l’assoluta alleanza che unisce la madre al figlio, tutte le madri ai loro figli. Io ricorro a guardarla spesso, ne possiedo varie in casa, e nelle chiese che visito, la cerco sempre, e la trovo. Amare quella donna col bambino, è un’ eredità che mi ha lasciato mia nonna materna, Aurora».

Il libro può essere ritenuto a Suo parere femminista e che cosa possono imparare le donne del Terzo Millennio dall’esempio di Maria?

«Il libro è assolutamente femminista, e a una nuova forma di femminismo alludevo prima, quando parlavo della forza dell’accoglienza. Io stessa sono incappata nell’errore che femminismo significasse scimmiottare gli uomini, i loro aspetti più leggeri. Solo più tardi ho capito che proprio tutte quelle caratteristiche che ritenevo essere lo specchio di una femminilità “fragile” erano invece i pilastri sui quali costruire la mia identità. Un certo tipo di cultura televisiva e letteraria spinge le donne a cercare linguaggi e forme espressive che la snaturano. La mia Maria è fortemente femminista, ancora non consapevole di esserlo, ma certa che è nel riconoscimento di quello che è, che troverà la sua forza. E Gesù stesso insegnava questo alle donne. Non dimentichiamo che si faceva precedere da loro, non come un re fa con gli schiavi che poggiano a terra petali sui quali passare, ma come Dio che viene anticipato dai suoi angeli».