Spagna, un governo «in rosa»: sono donne 11 ministri su 17. Non è una questione di sesso, ma di competenze

Nuovo governo in Spagna e i commenti italiani sui social: “servono le competenze, non conta il sesso”. Ma solo quando si parla di donne

Ci sono notizie che non dovrebbero fare scalpore, e invece lo fanno perché mostrano tutte le contraddizioni del nostro tempo. E’ il caso del nuovo governo della Spagna: il neo premier socialista Pedro Sanchez ha affidato 11 dei 17 dicasteri a donne, una percentuale altissima e in controtendenza con la media europea. Questa decisione non dovrebbe stupire, visto che di partecipazione femminile alla vita politica, alle alte cariche e ai ruoli apicali della società si parla da decenni ormai… Eppure stupisce, e tanto anche. Come mai?

Lungi da me fare del facile vittimismo di genere, o di cadere nei classici stereotipi. Però la questione fa riflettere parecchio. Non solo per l’inevitabile paragone con l’Italia – dove la rappresentanza femminile nei dicasteri è di 5 su 18, il minimo sindacale – ma anche perché la scelta di Sanchez in Sapgna lancia un messaggio importante che sarà colto da pochi.

Basta fare un giro veloce sui social netwrok – cartina al tornasole della “pancia” della gente, di quei pensieri serpeggianti ma fin troppo presenti nella mentalità comune – per rendersene conto. Mentre diversi articoli plaudevano al governo “femminista” di Sanchez, i commenti sottostanti mostravano chiaramente come di strada da fare, per la causa femminile, ce ne sia ancora molta.

L’obiezione principale era una, ripetuta in modi diversi ma sempre uguale nella sostanza: un ministro va scelto sulla base delle competenze, non sulla base del sesso. Anzi, risultava persino che la scelta di donne fosse una discriminazione ai danni di uomini. Il pensiero che una o più donna possano essere state scelte per competenze, meriti, formazione ed esperienza professionale evidentemente non ha sfiorato nessuno dei maschioni nostrani che si sono subito preoccupati di manifestare lo sdegno per la – presunta – discriminazione.

Ora, facciamo un passo indietro: il ragionamento per cui “un ministro va scelto sulla base delle competenze, non del suo sesso” è verissimo e condivisibile. Risulta però fazioso quando viene applicato ad un sistema che da sempre penalizza la partecipazione delle donne alla vita politica in quanto donne, e non sulla base delle competenze. In altre parole, fino a poco fa – ma possiamo dire ancora oggi – la scarsa presenza femminile a ruoli politici apicali dipendeva dall’intrinseco sessismo di una società maschilista per cui la donna in linea di massima andava bene se stava a casa a badare alla prole, se lavorava ma soltanto per necessità  familiari e mai per autodeterminazione, se non si immischiava in campi di potere ritenuti tradizionalmente di appannaggio maschile. Se proprio doveva raggiungere ruoli apicali, era per gentil concessione maschile, per una sorta di paternalismo professionale e non per meriti personali. Se l’ascesa di una donna invece non era patrocinata da un tutor di sesso maschile, scattava l’insinuazione classica: “chissà come ci è arrivata lì”.

Tutti discorsi, questi, che non sono mai stati messi in campo per gli uomini. Nei governi a maggioranza maschile, quanti sono gli uomini che si preoccupano così accanitamente di sottolineare la necessità delle competenze? Pochi, perché si dà per scontato che un uomo le competenze le abbia in quanto uomo. Una donna, no: nella mentalità corrente, una donna raggiunge una posizione di rilievo perché qualcuno le ha fatto un favore, per una concessione, perché è bella o perché “così si raggiungono le quote rosa e siamo a posto”.

Se quindi le competenze fossero state da sempre la discriminante nella scelta dei rappresentanti, allora il discorso “non conta il sesso” avrebbe senso. Ma purtroppo non è così, e allora in commenti simili non si vede altro che la meschina battaglia di una mentalità che ancora è ben lungi dal morire. Quanta strada c’è ancora da fare. Quanta.