Giovanni XXIII rinnova la Chiesa Italiana dandole un’identità con l’istituzione della CEI. Il 12 ottobre 1959 nomina come presidente il cardinale Siri, indicato dalla maggioranza dei vescovi.
Sotto il suo impulso la Cei assume presto posizioni non del tutto compatibili con il Papa, che tuttavia permette per il rispetto verso l’autonomia delle istituzioni ecclesiastiche. Il primo intervento è la lettera pastorale del 25 marzo 1960 dedicata al laicismo, categoria sotto la quale si vogliono sintetizzare in modo sommario i mali della modernità e che viene identificato con la tendenza a sottrarsi alle indicazioni della Chiesa in campo politico e con il diffondersi di correnti teologiche tacciate di neo-modernismo. Tali posizioni erano condivise dalla maggioranza dell’episcopato italiano, teologicamente arretrato e politicamente contrario all’alleanza di centro-sinistra tra cattolici e socialisti sostenuta invece dai responsabili della Democrazia Cristiana, uomini politici ormai esperti e in grado di esprimere giudizi politici autonomi. Il 18 maggio il Prefetto del S. Offizio, card. Ottaviani, contro il volere del papa pubblicò su «L’Osservatore Romano» un articolo Punti fermi, in cui ribadiva il diritto della Chiesa di esprimere un giudizio autorevole sulle scelte politiche dei fedeli e di esigere obbedienza. L’alleanza con i socialisti veniva vietata per l’incompatibilità tra l’ideologia marxista e il cristianesimo. L’opposizione del mondo ecclesiastico, oltre che di una parte della stessa Democrazia Cristiana, creò una grave crisi risolta solo per l’intervento di Giovanni XXIII. Con il discorso dell’11 aprile del 1961 in occasione della visita di Fanfani, Presidente del Consiglio, per il centenario dell’Unità d’Italia, il papa marcava il suo disimpegno dall’agone politico dell’intricata situazione italiana. Questa prima presa di posizione fu confermata definitivamente con il riconoscimento della non contrarietà ai principi di morale sociale cristiana delle risoluzioni del congresso di Napoli del gennaio 1962, favorevoli all’alleanza di centro-sinistra.
Papa Roncalli ebbe modo di ribadire le sue posizioni in modo più disteso e completo in occasione degli esercizi dell’estate del 1961, prendendo come base un testo rosminiano, in cui si rileva come l’intromettersi indebitamente nelle questioni politiche intralcia la predicazione del Vangelo, che costituisce il compito “sublime, santo e divino” dei vescovi con il papa. Lo schierarsi politicamente impedisce di annunciare liberamente a tutti i valori evangelici, di cui l’umanità ha perenne bisogno: «la giustizia, la carità, l’umiltà, la mansuetudine, la dolcezza e le altre virtù evangeliche difendendo con garbo i diritti della Chiesa». Questi contenuti vanno presentati con uno stile appropriato, perché risultino credibili. Nelle pagine rosminiane, Roncalli trovava la conferma di quei principi che da molto tempo orientavano il suo operare e insieme della via da percorrere a vantaggio di una società in rapida trasformazione: l’annuncio del Vangelo in modo rinnovato e libero da condizionamenti umani e l’adozione di uno stile più consono alla condizioni del tempo. Era urgente quindi puntare sull’evangelizzazione e a questo scopo aveva convocato il Concilio ecumenico, entrato ormai in questa estate del 1961, nella fase di preparazione. Il problema politico trovò la risposta definitiva nella Pacem in terris (11 aprile 1963), in cui papa Giovanni afferma che la distinzione tra false dottrine filosofiche e movimenti sociopolitici che ne derivano consente tipi di collaborazione precedentemente non ritenuti opportuni: «Giacchè le dottrine, una volta elaborate e definite, rimangono sempre le stesse; mentre i movimenti suddetti, agendo sulle situazioni storiche incessantemente evolventisi, non possono non subirne gli influssi e quindi non possono non andare soggetti a mutamenti anche profondi». Si trattava di una lettura certamente più articolata e di maggior respiro culturale e teologico confrontate con la rigidità delle dichiarazioni dell’episcopato italiano e di autorevoli esponenti della Curia romana, impreparati a cogliere l’evoluzione sociale del dopo-guerra e portati a risolvere i problemi ricorrendo all’astrattezza delle formule teoriche e illudendosi di mettere a tacere i dissenzienti con disposizioni disciplinari.
Ora la Pacem in terris apre a una nuova modalità di approccio che prelude e fa da modello alla Gaudium et spes. Per il suo respiro universale è rivolta non solo ai credenti, ma a tutti gli uomini di buona volontà e questa è la prima volta per un’enciclica. Appare pienamente applicato il tipico stile giovanneo di fiducia nell’uomo attraverso un approccio positivo nella valutazione delle trasformazione moderne, di sincera simpatia e di fraterna comprensione per i travagli dell’umanità, con l’abbandono del metodo logico-deduttivo inadeguato per la comprensione della dinamica sociale e l’elaborazione di un’aggiornata morale. Un particolare rilievo è dato alla categoria dei segni dei tempi, con l’invito a scrutare il nuovo della vita sociale in questa visuale di sviluppo dello spirito umano che si rende più consapevole della propria dignità. Come “segni dei tempi” vengono citati tre fenomeni: la promozione economico-sociale delle classi lavoratrici; l’ingresso della donna nella vita pubblica con la richiesta di essere considerata come persona tanto nell’ambito domestico che pubblico; la trasformazione socio-politica dell’umanità con lo sforzo per superare il colonialismo, le discriminazioni razziali, i complessi di inferiorità di un popolo verso un altro.
Altro punto di forte rilevanza e destinato in modo particolare a tutti gli uomini di buona volontà era quello relativo al disarmo. Dopo aver ribadito l’assurdità di una pace fondata sull’equilibrio del terrore il papa chiede che «venga arrestata la corsa agli armamenti; si riducano simultaneamente e reciprocamente gli armamenti esistenti; si mettano al bando le armi nucleari; e si pervenga finalmente al disarmo integrato da controlli efficaci». Poco dopo viene formulato il principio della impraticabilità della guerra nell’era atomica con la rimessa in discussione del principio tradizionale della guerra giusta: «Riesce del tutto irrazionale pensare che nell’età dell’atomica la guerra possa essere utilizzata come strumento di giustizia». Da esperto diplomatico Giovanni XXIII non auspica disarmi unilaterali, ma facendo leva sulla buona volontà, esorta le grandi potenze a trovare un punto di incontro per dare un concreto avvio inverso a quello praticato.
Egli diede un contributo pratico al superamento della guerra fredda e all’apertura di un dialogo tra le grandi potenze contrapposte. A lui spetta il merito della soluzione della grave crisi cubana, in cui si trovarono contrapposte l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti e che tenne il mondo con il fiato sospeso nei giorni tra il 23 e il 26 ottobre 1962. Altra iniziativa, condotta con estrema prudenza, ma destinata a lasciare il segno, fu l’avvio di contatti con l’Unione Sovietica, l’Ostpolitik. Si ottennero subito risultati concreti: l’invio di osservatori della Chiesa ortodossa russa al concilio Vaticano II; la liberazione di mons. Slipyi, arcivescovo di Leopoli e primate degli Uniati nel febbraio del 1963; l’udienza concessa alla figlia e al genero del premier russo Nikita Kruscev, episodio che causò notevole imbarazzo fuori e dentro lo stesso Vaticano. Papa Roncalli lo seppe gestire con grande abilità. Alla richiesta di instaurazione di immediati rapporti diplomatici tra S. Sede e URSS oppose un cortese rifiuto, giudicandoli prematuri. In successivi colloqui con un funzionario vaticano, il genero di Kruscev, Adjubei, si sentì ripetere che la loro attuazione era subordinata alla concessione della libertà religiosa a tutte le chiese.