Elogio del silenzio. Dialogo con Mario Brunello, violoncellista di fama internazionale

Il silenzio non ci appartiene. Il silenzio è della musica, è della natura, delle cose. L’uomo pretenderebbe di possedere tutto, ma il silenzio si può solo cercare, oppure per paradosso ascoltare. L’ascolto non porta a possedere il silenzio, ma a verificarne l’impossibilità di esistere. Molte infinite verità hanno a che fare con il silenzio. Tra tutte, la musica è quella che lo ha organizzato meglio; nella vita, nell’arte, nella religione, ma anche nel lavoro, nella comunicazione, nella scienza. Insomma dove l’uomo è intervenuto con intelligenza, il silenzio lo ha accompagnato; il silenzio creato dallo stupore nello scoprire la vita nel grembo materno, o il silenzio assegnato nell’attesa della morte, dell’ultimo respiro. Il silenzio come strada da percorrere è forse l’unica per l’incontro con il Dio di ogni religione.

A scrivere cosi è Mario Brunello, uno dei violoncellisti più conosciuti al mondo. Un artista che ama prestare la musica anche fuori dal circuito tradizionale, inventando anche forme musicali inusuali, coinvolgendo forme d’arte e saperi diversi (teatro, letteratura, filosofia, scienza), integrandoli con il repertorio tradizionale. Un musicista che è riuscito a portare le Suite di Bach sulle Dolomiti, sul monte Fuji, sulle rocce di Matera, sul Timbain nel Sahara tunisino. Brunello al silenzio ha dedicato un libro, pubblicato dal “Mulino” di Bologna.

Maestro, una prima curiosità: perché un libro sul silenzio?

“Perché un musicista scrive un libro sul silenzio?” Forse questo è più curioso. Perché il silenzio, prima di tutto, non viene insegnato, al pari della musica, al pari del colore, della parola. Mi sono accorto nel tempo, ragionando e prendendo appunti per questo libro, della mancanza di insegnamento del silenzio. Non vi è cura del silenzio. Chi non si ricorda a scuola dei cinque minuti di silenzio dati come atto punitivo? Nella musica, nella formazione musicale, per qualsiasi giovane il silenzio è una perdita di tempo, una perdita di tempo nel creare suoni. Che pare essere il vero fine del musichiere: riempire il silenzio di suoni. Ma se non si impara da dove partono i suoni, dove devono appoggiarsi… Io stesso ricordo molto bene le lezioni dove c’erano delle pause e i maestri che dicevano: “Dai che sentiamo…”. Ma come sentiamo? Sono quei momenti dove il compositore trova l’attimo per la svolta del suo pensiero musicale. Per questa ragione, ho deciso di scrivere dei pensieri su un argomento che potrebbe essere universale e ho deciso di limitarlo all’ambito musicale. L’ascoltare è da molto tempo ormai collegato al vedere o, peggio, al fare; l’ascoltare è strettamente collegato a un’altra azione.

Questa scarsa cura del silenzio ha a che fare con la mancanza di ritualità?

Si, credo di sì. Infatti ho iniziato il libro con la descrizione di una ritualità perduta, quella dell’ascolto di un vinile. Il vinile prevedeva prima di tutto un tempo per una scelta, ponderata, molto spesso premeditata e pregustata, in quanto si era consapevoli del tempo e della quantità di azioni che l’ascolto del disco metteva in moto. Era previsto anche uno spazio fisico ben preciso in casa, una specie di rifugio musicale dove, oltre alla postazione di ascolto, c’era anche il posto fisso per il giradischi e per stivare i dischi. Poi il disco lo si doveva pulire, appoggiare delicatamente sul piatto, altrettanto delicatamente, appoggiare il braccio, la puntina e soprattutto aspettare la fine del disco. Perché? Perché sennò si rovinava la puntina? No. Era una ritualità molto più accurata; ci si prendeva cura di quel momento, che in genere si compiva in silenzio.

Nel libro, soprattutto nella prima parte, ho visto un’insistenza sul fatto del lessico della cura, come se il silenzio fosse oggi qualcosa di minacciato; minacciato dai rumori, dalla fretta delle nostre vite, laddove il silenzio ha bisogno di tempi lenti. Che parole disturbano la nostra vita quotidiana? Da che cosa bisogna salvare oggi il silenzio? Come custodire il silenzio dalle molte minacce in corso?

Penso che la salvezza del silenzio sia il tempo, la possibilità di rivendicarlo. Non si può pretendere che il silenzio viva senza pretendere che gli si dedichi del tempo. Dedicare tempo al silenzio è come dedicare tempo alla musica. Senza tempo, senza quei cinque minuti, dieci minuti, mezz’ora, quando la sinfonia attende, non si può compiere l’atto musicale. Per il silenzio è la stessa cosa. Non si può pensare di apprezzare il silenzio con uno sguardo, in un momento. Lo si può scoprire, ma per apprezzarlo, per chiedere cosa ti insegna, ha bisogno del tempo. E quel tempo è una grande ricchezza per la nostra vita perché il silenzio aiuta a mettere in evidenza le cose. La musica insegna che l’ascolto è la prima attitudine per vivere la musica. Senza ascolto, non c’è silenzio.

Eppure lei inizia il suo libro con un verso della poetessa polacca Wislawa Szymborska: «Quando pronuncio la parola Silenzio, lo distruggo». Se cosi è, non è stato un azzardo descriverlo?

Forse, ma prima di descriverlo l’ho cercato a lungo e credo che non smetterò mai di rincorrerlo. Io l’ho incontrato, l’ho conosciuto anche se ancora non ho capito da che parte sta. Se dalla parte degli umani, oppure in una sfera dove noi non abbiamo diritto d’accesso. Secondo John Cage, il musicista che ha dedicato la vita alla ricerca della definizione del silenzio come materia sonora, il silenzio non esiste. La mia è stata dunque una partenza in salita.

E la sua ricerca l’ha portata alla fine a confermare la scoperta di Cage.

Dove c’è vita non ci può essere silenzio, ma alle affermazione di Cage ho affiancato una serie di domande per chiarire a me stesso dove può nascondersi.

Dove si nasconde?

Dietro al suono, dietro al tempo, dietro al pensiero che occupa gli spazi del silenzio. Mi affascina cercarlo nella mente del compositore, nel momento in cui si affaccia un’idea e si compie la magia della creazione. Quello spazio, essendo un esecutore, io posso soltanto supporlo. Immagino Bach circondato dal frastuono casalingo di venticinque figli e tanti allievi che trova uno spazio silenzioso nella sua mente e scrive. Che cosa è accaduto in quel silenzio che ha generato quelle note?

Nel libro lei parla anche del silenzio nella musica della natura. Mi ha particolarmente colpito la definizione che ha dato di questo silenzio. Scrive che, in montagna, “il silenzio è verticale; spazio che si libera verso l’alto, con una via di fuga.” Può spiegare meglio questa idea?

Per una passione che viene da lontano per la montagna ho voluto portare i suoni in luoghi e  in spazi, che in genere vengono considerati non idonei per la musica. Lì ho imparato che il suono si disperde nel silenzio stesso e mi dà la possibilità di scavare dentro. È un suono più artigianale, crudo, non lavorato, che “non torna indietro” come nelle sale da concerto dalla buona acustica. Esiste dunque un suono della natura. Immancabilmente, in questi grandi spazi, quando ci si trova al cospetto di queste pareti, la prima cosa che viene da pensare è: chissà che eco ci sarà! Chissà che ritorni! Niente di tutto ciò, c’è un silenzio enorme che va verso l’alto e ti invoglia ad andare su con il silenzio. La montagna spinge verso l’alto. Perché si scala tutto? Per salire a vedere che cosa c’è sopra.

Una grande emozione…

Si, non ha mai assistito all’alba sulle montagne? Salire la montagna quando ancora è buio, e aspettare il sorgere del sole? È uno spettacolo che nessun vezzo creato dall’uomo può dare. A un certo momento, prima che il sole sorga all’orizzonte, c’è un fremito. Non è l’aria che si è mossa, è qualche cosa che va a prendere l’erba, che va a prendere le fronde, se ci sono alberi intorno; l’aria stessa, ed è un brivido che percorre anche la tua pelle. E per conto mio, è proprio il brivido della Creazione, che il sole ci porta ogni mattina.

Lei ha anche suonato nel deserto…

Si, più volte. Ho fatto diversi trekking musicali, sempre nel Sahara. In quell’ambiente comprendi che esiste un silenzio “orizzontale”.  Ho sempre provato una grande invidia per chi vive in quegli spazi  e per la vita che c’è in quegli spazi. Dopo giorni passati in mezzo alle dune trovi una formica che cammina tranquillamente da sola. Ecco perché mi piace molto paragonare la musica e l’esecuzione musicale al tipo di silenzio; andarlo a cercare nella mente che ha prodotto quell’idea musicale, quell’espressione, quel gesto artistico. Tra nota e nota non sarebbe bello andare a cercare cosa c’è? Tutto lo spazio silenzioso che il compositore ha impiegato tra una nota e l’altra, in uno spazio che esiste, anche se non sembra.

In alcune pagine del libro lei paragona il silenzio alla contemplazione.

Si, ascoltare prevede un’azione, un intervento, una decisione; perciò un sistema di lavoro, un ragionamento, un’elaborazione dell’ascolto. La contemplazione è il tuffarsi completamente nell’attesa di capire qualcosa di molto più grande. Penso che la contemplazione sia una delle chiavi più chiare, davanti al silenzio, o meglio davanti a quello che possiamo definire silenzio. Contemplare o contemplazione, potrebbero tranquillamente sostituire il termine “silenzio”. Lo definiscono meglio, lo fanno diventare più umano, più vicino al nostro comprendere.  Anche i piccoli gesti, apparentemente banali, mettono in rapporto le cose, per quello che sono. Non sono strumento, ma sono per quello che sono. Sono silenti quando non servono; quando si contemplano danno il significato della loro esistenza. Il violoncello che io uso ha  quattro secoli di vita: cosa diventa quando lo suono? Diventa la mia voce, non è più lui. Diventa mio strumento, lo posso cambiare ogni volta. È lui, con i suoi quattro secoli, onoratissimi, quando lo considero per quello che è. Questo vale con tutti gli oggetti. Le cose hanno un loro senso, quando sono silenti.