Il caso Acquarius, i naufragi e il traffico di esseri umani: una catena di morte. Non si può girarsi dall’altra parte

Migranti, accoglienza, ong: parole che fomentano un’ormai tristemente nota battaglia di slogan, a destra come a sinistra. Perché, al netto di tutto, è di slogan e tifoserie che stiamo parlando quando assistiamo alle battaglie tutte social tra sostenitori dell’accoglienza sempre e comunque in nome dei diritti umani e scettici di un sistema di accoglienza che fa acqua da tutte le parti, tra chi abusa della parola “razzisti” e chi di quella “radical chic”. La questione Aquarius e la chiusura dei porti italiani voluta dal ministro dell’Interno Matteo Salvini ha riportato alla luce tutte le contraddizioni, le incoerenze e le difficoltà su un problema divenuto ormai strutturale e talmente complesso da non poter essere gestito con il manicheismo alla “accoglienza sì / no”. 

Iniziamo a sottolineare ciò che dovrebbe essere palese, e spesso non lo è: la traversata del Mediterraneo è l’anello che unisce Africa ed Europa in una lunga catena di sfruttamento che comincia ben prima delle coste libiche e finisce molto dopo. Prima, ci sono i viaggi della morte nel Sahara nelle mani di trafficanti senza scrupoli e i campi di detenzione in attesa della traversata. Durante, ci sono i viaggi: gommoni e bagnarole sovraccariche sono diventati un’immagine comune a tutti, così come il tragico bilancio di morti e dispersi che spesso si portano appresso. Dopo, ci sono racket, mafie, caporalato, prostituzione: tutti traffici in cui i migranti finiscono per essere poco meno che carne da macello o da soldi, e sono pochi quelli che riescono a sottrarvisi, grazie anche all’operato di alcune cooperative e associazioni che quotidianamente cercano di offrire una soluzione ad un sistema burocratico lento, infinito, pesantissimo e prospettive a questi ragazzi. Ma, ricordiamolo: queste realtà sono poche, e le migrazioni non si arrestano. Con la complicità di un’Europa in buona parte indifferente o addirittura aggressiva (ricordiamo la frontiera francese chiusa a Ventimiglia), e il ruolo talvolta ambiguo delle organizzazioni che si occupano del salvataggio. 

Non si può fingere di non vedere questa tremenda catena. Non si può fingere che il problema sia “solo” il recuperare queste persone in mare, e poi basta così, siamo buoni, viva i diritti umani. I diritti umani non sono solo una bandierina da appuntarsi sulle spalle quando si fanno le manifestazioni in piazza: sono in primo luogo un’enorme responsabilità. Responsabilità significa che, purtroppo, “non possiamo accogliere tutti” è vero, perché non ha senso accogliere tutti per poi abbandonarli a se stessi. 

Questa non è accoglienza, questo non è rispetto dei diritti umani: è buonismo autoreferenziale. E’ l’egoismo di chi vuole sentirsi buono scrivendo “restiamo umani!” su Facebook, e poi chissenefrega della fine che faranno le persone dell’Aquarius, e della nave successiva, e di quella dopo ancora. Chissenefrega dei Cie strapieni, dove queste persone vivono ammassate come animali in attesa di un responso che non arriva mai. Chissenefrega di chi finirà a ingrossare le fila del caporalato agricolo e del racket dell’elemosina e della droga, e chissenefrega delle donne che poi si troveranno sul ciglio della statale, abbandonate a se stesse e alla piaga della prostituzione. Chissenefrega degli assembramenti di umanità povera e disperata nelle periferie, perché tanto poi se si creano tensioni la colpa è “dei razzisti”, mica dello stremo di persone – bianche e nere – che si trovano a rubarsi le briciole nell’indifferenza dei salotti  e delle tribune dove si ciancia a sproposito di “diritti umani”. Chissenefrega del disagio di chi si rende conto che masse di migranti da sfruttare significano un ulteriore abbassamento dei diritti e degli stipendi lavorativi per tutti quanti. 

Il dibattito pubblico sulla questione Aquarius si è arenato sulle accuse di disumanità, con la complicità di molti giornali che hanno gridato allo scandalo contro l’atteggiamento muscolare di Salvini ma si sono ben guardati dal segnalare – ad esempio – che sono stati sì chiusi i porti italiani, ma sono stati forniti supporto medico e alimentare alla nave. E’ disumano chi non vuole che la nave attracchi, dicono: ma forse è disumano allo stesso modo chi non si cura delle conseguenze a breve e lungo termine delle ondate di sbarchi. Chi volutamente se ne infischia, forse perché queste conseguenze non lo toccano mai dal vivo. 

Quelli che si lamentano, secondo la narrazione comune, sono ignoranti, razzisti, livorosi, ragionano con la pancia. Ma ai salotti, a chi disquisisce sull’umanità degli altri dal proprio giardinetto curato, ai politici che fanno la morale  bisognerebbe ricordare che la pancia vuota fa male, e poco conta che sia bianca o nera.