A proposito dei preti che tornano a intervenire nei fatti della parrocchia che non è più la loro

Quando nelle nostre comunità si prendono decisioni importanti a livello pastorale, è normale che ci sia chi è d’accordo con le scelte fatte e chi non lo è. A volte si creano tensioni anche forti, che si risolvono nella misura in cui si è pronti a mettere in discussione le proprie posizioni, ad accettare che non per forza quello che si deve fare sia ciò che pensiamo noi, e soprattutto se si è disposti a prendere atto che, alla fine, dopo aver ascoltato le diverse posizioni, c’è chi deve decidere e la sua decisione va almeno rispettata, anche se personalmente non si condivide quella scelta.

Un interesse mal posto che crea divisioni

Ciò detto, vorrei riflettere su un aspetto delicato che riguarda noi preti, e di riflesso la nostra gente, su questo tema. Non è raro, infatti, che chi non condivide le scelte del suo parroco e del suo curato, effettuate insieme ai consigli competenti della parrocchia, cerchi sostegno in sacerdoti che hanno avuto un passato in quella parrocchia, perché nativi del luogo o perché vi hanno esercitato il ministero. Quando questo sostegno è concesso, iniziano i problemi. Ora, ciò che mi sta a  cuore non è tanto analizzare i problemi che possono originarsi da questa eventualità, ma cogliere la dimensione etica e spirituale del gesto che, invece di portare  solidarietà, crea divisioni nelle comunità.

Il mio punto di vista sul prete che lascia una parrocchia per trasferirsi in un’altra è noto a chi mi conosce ed è molto chiaro: lo espongo brevemente. Io credo che un prete che si trasferisce possa tranquillamente tenere dei contatti con alcune persone della parrocchia che lascia: faccio fatica di fronte alla prospettiva, che pure qualche confratello legittimamente sceglie, di sparire completamente dalla comunità. Siamo uomini, costruiamo relazioni, non stiamo nelle comunità come funzionari, ma viviamo con la gente e, soprattutto con gli stretti collaboratori, passiamo la gran parte del nostro tempo, anche per molti anni; non siamo computer a cui viene staccata la spina da una parte per riattaccarla da un’altra, come nulla fosse. Peraltro, in un tempo di relazioni fragili, nel quale ci vogliono anni per conoscere le persone e costruire legami autentici di fraternità e amicizia, trovo bello e importante che il prete conservi dei rapporti con persone o famiglie che hanno costituito per molto tempo la sua vita quotidiana. Pertanto, nessun problema di fronte al fatto che qualche volta, senza eccedere, il sacerdote possa invitare alcuni ex parrocchiani o possa essere da loro invitato per condividere un pasto o scambiare qualche parola in amicizia.

Il prete che giudica i suoi successori

Il problema si pone, dal mio punto di vista, quando il sacerdote che si è trasferito pretende di avere ancora voce in capitolo sulle scelte dei successori. Questo è scorretto, non solo moralmente, ma anche spiritualmente, perché contrasta con quella fraternità sacerdotale costitutiva del ministero ordinato. Qualcuno, quando ho condiviso questo parere con la schiettezza che mi caratterizza, mi ha risposto: “Eh hai ragione, ma sai, se la gente ti chiama e ti chiede…”. A queste parole ho ribattuto immediatamente: “Che qualcuno provi a cercare il prete per farsi dar ragione ci può stare, ma che il prete ci caschi no!”. Piuttosto, nello spirito della carità fraterna, capitasse a me preferirei rispondere alla gente che deve parlare con i suoi preti, perché chi è via da una parrocchia non ha più mandato pastorale in essa e poi, se proprio percepissi che il mio confratello sta facendo scelte pericolose, sentirei personalmente lui, senza passare da mediazioni inopportune ed equivoche.

Lasciare che il cammino prosegua senza di me

È davvero triste, e mi permetto di dire che ha anche poco a che fare col Vangelo, sapere di sacerdoti che incoraggiano la gente a cui dicono di voler ancora bene ad agire contro i preti che il Vescovo ha destinato nella loro ex comunità. Da parte mia, porto nel cuore l’esempio splendido di correttezza e fraternità sacerdotale dei miei predecessori di Grumello e Telgate, don Fabio e don Luca, così come quello di don Tarcisio, parroco emerito di Telgate. Mi hanno insegnato che voler bene a una comunità e alla sua gente significa, terminato il proprio mandato, lasciare che il cammino prosegua con i nuovi sacerdoti scelti per quella comunità: in questo modo, resta l’amore per le comunità servite in nome del Vangelo, restano le amicizie, ma anche la libertà, necessaria ai preti e alla gente, per proseguire il cammino di Chiesa.