Ormai da cinque anni, c’è chi ripete il refrain per cui Francesco non sarebbe un «vero teologo», ma si limiterebbe a «parlare a braccio»; più recentemente, questa volta «da sinistra», lo si è accusato di dare solo a credere – con la complicità dei media – di voler promuovere una riforma della Chiesa, senza averne la minima intenzione. Forse non avrà successo presso i partigiani dell’una o dell’altra tesi, ma potrebbe interessare chi più umilmente volesse approfondire alcuni concetti chiave del pontificato di Bergoglio, la collana delle Edizioni San Paolo I semi teologici di Francesco. I titoli già pubblicati in questa raccolta di undici volumetti, curata dai teologi Pierangelo Sequeri e Maurizio Gronchi, sono i seguenti: La carne, di Giovanni Cesare Pagazzi; La misericordia, di Giacomo Canobbio; Il discernimento, di Giacomo Costa; Il neopelagianesimo, di Giuliano Zanchi; La vulnerabilità, di Laura Capantini e Maurizio Gronchi; L’armonia, di Lorenzo Baldisseri e Pierangelo Sequeri; La reciprocità, di Massimo Naro.
Il testo sul «neopelagianesimo» (pp. 128, 10 euro) è firmato appunto dal bergamasco don Giuliano Zanchi, segretario generale della Fondazione Bernareggi e vicario parrocchiale a Longuelo, già autore di diversi saggi sul ruolo del cristianesimo nella cultura contemporanea. Per capire i riferimenti critici a una visione «neopelagiana» della fede che ricorrono nei discorsi di Papa Bergoglio, occorre però una breve premessa di ordine storico: all’inizio del quinto secolo Pelagio, un monaco di origine britannica o forse irlandese, andava predicando che i cristiani sarebbero chiamati a costituire un’élite virtuosa, conformando perfettamente le loro vite alle prescrizioni del vangelo. Pelagio era convinto che la santità, così come il peccato, dipenderebbe sostanzialmente da una libera decisione del singolo essere umano: «Senza la volontà non compiamo né il bene né il male – egli scriveva -; siamo sempre liberi di compiere l’uno o l’altro, dal momento che siamo in grado di fare entrambi». Nell’anno 418, tuttavia, in un sinodo riunito a Cartagine, questa teoria fu giudicata eretica, in quanto minimizzava il ruolo della grazia divina e della redenzione operata da Cristo.
In altre forme – domandiamo a don Giuliano Zanchi -, anche oggi i cristiani sono esposti alla tentazione del «pelagianesimo»?
«Il pelagianesimo antico aveva il suo limite più macroscopico nel fare di Gesù il semplice portatore di una legge così perfetta da ritenere la sua rigorosa adempienza la sola vera via per quella giustizia che di fronte a Dio rende salvi. Il vangelo come legge, non come relazione. Era come tornare alla più rigida interpretazione dell’Antico Testamento. Gesù come semplice modello etico. Non personale interlocutore divino. Quindi l’idea di una condizione cristiana misurata esclusivamente sull’adempienza della legge religiosa. Un modello che costruisce i criteri dell’appartenenza religiosa in termini di perfezione elitaria. Un cristianesimo dei perfetti. Oggi questa tentazione torna in chi ancora fa del precetto religioso e della precisione dottrinaria l’elemento che decide la bontà del legame che il credente sperimenta nei confronti di Dio».
Su questo punto, ci viene in mente un passaggio molto bello – e assai duro – dell’Amoris laetitia di Papa Bergoglio: «È meschino soffermarsi a considerare solo se l’agire di una persona risponda o meno a una legge o a una norma generale, perché questo non basta a discernere e ad assicurare una piena fedeltà a Dio nell’esistenza concreta di un essere umano».
«Il criterio della semplice conformità ai precetti è pericoloso. Intanto perché non tiene conto del fatto che la morale e la dottrina, seppure toccano esperienze originarie e immutabili, si danno sempre necessariamente in formulazioni linguistiche e paradigmi culturali che sono storici e situati, quindi anche connotati di una loro relatività. In secondo luogo perché tutto questo toglie dal primo piano dell’esperienza di fede la relazione viva con Gesù, unica reale via verso la verità di Dio. Papa Francesco non si stanca di ribadire che, al contrario, la peculiarità della vita cristiana sta nella possibilità per chiunque di attraversare ogni momento dell’esistenza, anche quello più compromesso, alla luce di una sempre possibile relazione con Gesù».
Il «neopelagianesimo» non è tuttavia rassicurante, da un punto di vista psicologico? Nel senso che porta con sé delle «parole d’ordine», dei criteri netti per decidere chi sia dentro e chi sia fuori dai confini della comunità cristiana.
«Si tratta di un criterio rassicurante perché illude che la giustizia della fede sia codificabile e monitorabile in astratto e in generale a prescindere dalle condizioni concrete della vita, che per definizione sono invece contingenti, situate, condizionate. Mette nella tentazione di classificare il grado di appartenenza dei credenti a una vera relazione con Cristo sulla base di codici normativi che sono pur sempre storici, finendo per tracciare con disinvolto rigore linee di separazione, confini di esclusione, perimetri di giudizio troppo affrettati, quindi venendo anche meno al mandato testimoniale della Chiesa che è quello di far incontrare gli uomini con la grazia di Cristo. È un criterio particolarmente seducente in un tempo complesso come il nostro, in cui la grande fluidità etica e culturale che domina la nostra epoca richiederebbe un compito di discernimento più impegnativo e articolato, nel quale non sempre l’obbiettivo può essere quello di codificare tutto, ma in cui si deve accettare anche di stare nella sospensione. In un momento come questo un nuovo rigorismo dà l’illusione di superare la complessità. Ma il prezzo consiste nel fatto che tante persone restano semplicemente prive di una via evangelica davvero praticabile. Vengono solo sorvolate da un massimalismo morale ormai scollegato dall’esperienza reale».
L’approccio pastorale di Francesco al rapporto tra la «coscienza» e le «regole» consentirebbe ai cattolici anche di rivolgere uno sguardo più sereno alla cultura contemporanea? Il loro primo compito non dovrebbe essere quello di studiare, conoscere e comprendere, pur senza rinunciare al «diritto di critica»?
«L’alternativa al pelagianesimo, vecchio e nuovo, non è certamente l’accettazione meccanica dello spirito dell’epoca. La profezia cristiana lo deve certamente soppesare con tutta la sua sapienza e con tutta la sua ricchezza. Ma deve trovare la capacità di fare in modo che anche la vita reale e concreta dell’uomo di oggi (non un essere virtuale senza tempo) possa assumere la forma del vangelo. Il compito pastorale, sul quale il papa insiste con particolare passione, non sta nel contrapporre una via religiosa come alternativa a questo mondo, ma nel renderla possibile anche nell’attuale complessità. Se per arrivare a questo si rende necessario seguire l’uomo di oggi nelle sue più svagate erranze, occorre farlo, come del resto comanderebbe Gesù. La parola evangelica che chiede di fare anche due miglia con chi chiede di farne uno, può essere intesa anche così. Forse la condizione umana di oggi chiede soprattutto di essere accompagnata. La Chiesa deve saperlo fare a oltranza. Se uno ti chiede di fare un miglio con lui, tu fanne addirittura due. E anche di più se serve».