Una luna chiamata Europa: in un film ungherese gli estremi e i paradossi del Vecchio Continente

«Giove ha 67 lune conosciute. Le quattro più grandi sono state scoperte nel 1610 da Galileo Galilei. Si ritiene che una di queste lune abbia un mare salato sotto la sua superficie ghiacciata. Potrebbe essere la culla per nuove forme di vita. La luna è stata chiamata Europa». È questa l’immagine suggestiva, affascinante, poetica, che sta all’inizio del film «Una luna chiamata Europa» dell’ungherese Mundruczó Kornél. Subito dopo, invece, si entra in una realtà che le cronache quotidiane ci hanno reso purtroppo familiare: quella di un gruppo di stranieri che viaggiano stipati in un furgone, a caccia di un varco per il “paradiso”. Percorrono un tratto in barca. Stanno per arrivare in Ungheria, ma vengono fermati da due pattuglie in perlustrazione, i soldati sparano, i gommoni si ribaltano. Gli stranieri – un gruppo di rifugiati siriani – scappano, nuotano tra i cadaveri, cercano di raggiungere la riva.
Tra loro c’è Aryan (Zsombor Jéger), giovane rifugiato siriano figlio d’un carpentiere della oramai spettrale Homs, al quale László (Cserhalmi György) poliziotto dai modi un po’ troppo spicci, a caccia di immigrati clandestini, spara quattro revolverate nel petto, che presumibilmente dovrebbero ucciderlo.  Accade però qualcosa di incredibile: invece di morire dissanguato, il ragazzo incomincia a levitare, disegnando bizzarre capriole tra gli alberi del bosco.
Nel campo profughi incontra Gábor (Merab Ninidze), medico corrotto, che nasconde gli stranieri clandestini con la complicità (non sempre accondiscendente) della sua amante, la dottoressa Vera (Balsai Mónika): si fa pagare per questo e cerca di mettere insieme in questo modo la somma necessaria per risarcire la famiglia di un giovane atleta che ha ucciso in sala operatoria, eseguendo un intervento mentre era ubriaco.
Aryan è terrorizzato da questa straordinaria capacità di levitare. E’ partito con il padre ma lo ha perso durante il viaggio, e di lui gli rimane soltanto una cartina sulla quale è segnato un punto di ritrovo, una stazione di Budapest dove si accampano molti siriani di passaggio. Vorrebbe cercarlo, ma si trova in balia del medico Gabor, intenzionato a sfruttare la sua speciale capacità per fare più soldi possibile, mentre i poliziotti lo inseguono, perché “I miracoli – suggerisce il medico, che alla fine si pente – non sono ben visti ma temuti”. C’è qualcosa di spirituale, di mistico in questa fiaba tragica, Aryan viene considerato dalla gente semplice come un angelo che a volte dona la salvezza, a volte accompagna alla morte, una manifestazione del destino, in scenari che il regista disegna attingendo all’immaginario di artisti come Magritte. Aryan è un elemento di rottura in un clima cupo, ostile: confonde i suoi interlocutori, si smarca da qualunque catalogazione, sfugge alle definizioni, sbriciola qualunque tentativo di erigere muri fisici o culturali, imponendo alla gente di osservarlo, e di scorgere in lui qualcosa di più e di diverso da un qualunque rifugiato, costringendo a sollevare lo sguardo più in alto, suggerendo in modo metaforico che esiste qualcosa di più importante, di più elevato. Una riflessione spiazzante, lucida e  seducente dal punto di vista estetico e contenutistico. Mundruczó richiama gli angeli de “Il cielo sopra Berlino” di Wenders per raccontare, con tono esplicitamente critico, le derive dell’Ungheria e di tutto il Vecchio Continente, che – tra razzismo, violenza e corruzione – sembra tutto fuorché la culla di nuova vita che il titolo invita a immaginare, così lontana dal ritratto che compare nei sogni (illusioni) di chi dai Paesi in guerra parte per raggiungerla.