La “carne”, il pane, la “vita eterna”

In quel tempo, i Giudei si misero a mormorare contro Gesù perché aveva detto: «Io sono il pane disceso dal cielo». E dicevano: «Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe? Di lui non conosciamo il padre e la madre? Come dunque può dire: “Sono disceso dal cielo”?» (Vedi Vangelo di Giovanni 6, 41-51).

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Bisogna lasciarsi “attirare” dal Padre

“Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà sete, mai!”. Era la conclusione del vangelo di domenica scorsa. Di fronte a quelle affermazioni, la gente mormora. Egli vorrebbe essere un cibo divino, celeste, dono di Dio. Ma come è possibile? Gesù è il figlio di Giuseppe per i suoi ascoltatori che conoscono le sue parentele e che non riescono a capire come un uomo così banalmente conosciuto possa essere il pane disceso dal cielo. Ritorna, dunque, lo scandalo di fronte all’umanità del Verbo, la sua origine terrena, le sue parentele, la sua famiglia, soprattutto.
Gesù risponde dicendo che il credente deve lasciarsi “attirare” dal Padre. La vera conoscenza di Gesù è un dono di Dio, dunque e non una semplice “impresa” dell’uomo. Chi vuole arrivare a Dio deve come lasciarsi prendere per mano dal Figlio che porta a Dio: è lui infatti il rivelatore, la via verso il Padre. La manna stessa era solo segno di un altro cibo. “Il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo”. Dunque, bisogna mangiare la carne del Signore. Gesù parla di “carne”, dunque, che è l’essere umano nella sua interezza, ma anche nella sua fragilità: Gesù dona il suo corpo, il suo corpo, debole. Ma questa debolezza – si lascia prendere, uccidere infatti – è segno di un dono, di un amore senza fine: è vita donata al mondo. Solo mangiando quella “carne” si arriva a Dio.

Il pane si “disfa” per “fare”

Gesù dice che bisogna mangiare la sua “carne”. Per capire il senso di quel comando paradossale, ci possiamo riferire proprio all’esperienza del mangiare. Il pane, infatti, si “disfa” per “fare” noi. Noi lo assimiliamo: una parte si incorpora ai nostri tessuti, una parte viene bruciata e produce energia. Il cibo si consuma e noi viviamo grazie a quel “disfarsi” e a quel consumarsi.
Gesù si è “disfatto” per noi, si è lasciato “triturare” dalla passione e dalla morte. Ora è glorioso, non muore più. Non si lascia “triturare” un’altra volta per comunicarsi. Semplicemente prende la figura di un alimento, del pane. Arrivato, con la sua morte-risurrezione, alla vita piena, è quella vita piena che ci dona. Dunque non un frammento piccolo e fragile della vita, ma la vita senza fine. “Se uno mangia di questo pane, vivrà in eterno”.