Il PD verso il congresso

Foto: Marco Minniti

Il cantiere disordinato

Al momento, la situazione reale della rappresentanza politica è la seguente: il Nord produttivo si riconosce nella Lega; il Centro-Sud assistito è perfettamente rappresentato dal M5S. Il Pd, invece  appare free-floating, disancorato dalla società italiana. A questa società civile italiana che cosa offre l’attuale PD?
La proposta di Zingaretti è quella classica del PCI e delle sue succedanee sigle successive. Sui migranti, non c’è idea. Sul M5S, preso atto che pochi ormai nel PD auspicano l’alleanza con loro, eccetto Emiliano, la proposta è quella di disarticolarlo. Unica presa d’atto realistica è che “il centro-sinistra in dieci anni è passato da 12 a 6 milioni di voti milioni e sono cresciute le disuguaglianze”. “Basta con l’ego-crazia”, tradotto, significa: basta con il segretario leader di governo, basta con Renzi! Torniamo a separare le due cariche. “Ripartiamo da noi”. Traduzione: ripartiamo dai caminetti delle piccole oligarchie storiche interne, dalla sinistra delle terrazze romane. A chi parla oggi questo programma? Forse al Centro del Paese, al Lazio, al tessuto sociale delle Regioni ex-rosse. Non ci vuole un occhio molto esperto per cogliere sotto queste generiche fumisterie una ricollocazione “più a sinistra” del PD. Quella che, con sprezzo del pericolo, hanno già praticato D’Alema e Bersani con LEU, che ora risalgono in disordine e con reiterata arroganza le valli che avevano discese con orgogliosa sicurezza.
Minniti offre la consapevolezza dell’importanza delle paure dei cittadini quale punto di partenza per guardare la realtà sociale in Italia e per regolare conseguentemente l’afflusso e l’accoglienza degli immigrati. Ma al Nord e al Sud la questione sottesa è soprattutto un’altra: lo sviluppo e il lavoro. Al momento, nel suo programma questa resta una pagina bianca.
Quanto a Martina-Del Rio, i contenuti programmatici sono indefiniti, per ora. Più chiara l’intenzione politica: scommettere sul fatto che le primarie non diano un vincitore netto e perciò ricavarsi lo spazio di contrattazione con il vincitore di turno. Una classica operazione centrista democristiana.
E Renzi? Sta a guardare come le stelle di A. Cronin? Non proprio. E’ convinto che quello del PD sia un modello esaurito. Sta provando a costruirne un altro, dal basso dei Comitati civici, nella speranza di intercettare i movimenti che la società civile incessantemente e imprevedibilmente genera. Alcuni sondaggi gli danno il 12%.
Complessivamente, anche ad uno sguardo simpatetico, il PD appare un cantiere disordinato, dove qualcuno costruisce, qualcuno ristruttura, qualcuno abbatte, ma sempre lo stesso edificio. Vi si aggirano troppi architetti e troppi capomastri. Si chiama Torre di Babele.

Una storia di lunga durata

Poiché sarebbe ingeneroso ridurre tutto alla cattiva antropologia della sinistra, fatta di odi, amori, ambizioni, scissioni e rifusioni – sarebbe come dire che è colpa del peccato originale, tipico di ogni aggregato umano –  per capire in profondità è forse più utile ricorrere all’approccio francese della “longue durée”. Contano di più le strutture storiche che gli eventi singoli. Perché, dunque, è fallito finora il tentativo di costruire una sinistra di governo in grado di alternarsi regolarmente ad una destra di governo, a tal punto che un’intera storia della sinistra sembra giunta al capolinea?
La prima e decisiva ragione storica è che non si è mai visto un passaggio/metamorfosi dai partiti comunisti ai partiti socialisti/socialdemocratici. Né a Ovest né a Est. Neppure in Italia. Dove Occhetto, dopo aver vagheggiato nel XVIII Congresso del marzo 1989 la possibilità di rinnovare il comunismo, all’ombra di Gorbaciov, propose il 12 novembre dello stesso anno una svolta che rifiutava non solo il comunismo, ma anche la socialdemocrazia. E cioè, in Italia, i socialisti di Craxi. Certamente, anche per errori del leader socialista, che a loro volta erano reazioni ai falli subiti dal PCI, lungo una catena storica e fratricida.
Va tuttavia riconosciuto che se anche il PCI avesse raggiunto per tempo le dolci terme di Bad Godesberg, dove già nel 1959 i socialdemocratici tedeschi avevano rinunciato al marxismo-leninismo e accettato l’economia di mercato, oggi si troverebbe a condividerne la crisi. Perché l’intera sinistra europea è stata sorpresa dalla caduta dell’ordine mondiale del 1945 e dall’irrompere pervasivo della globalizzazione socio-economico-finanziaria-culturale. Socialisti e post-comunisti erano/sono rimasti fermi alla teoria e alla pratica dello “Stato sociale in un solo Paese”. Ovviamente in termini diversi da quelli a suo tempo definiti dal dibattito sanguinoso tra Stalin e Trotsky sul socialismo in un solo Paese. Tanto i socialisti quanto i post-comunisti – cioè il PCI-PDS…- hanno continuato a pensare la politica estera e la collocazione dei loro Paesi in termini esclusivamente nazionali. Al mondo fuori di noi pensavano gli USA e la NATO. Il che è come a dire che non hanno fatto i conti seriamente con la crisi dell’ordine mondiale e con la globalizzazione socio-economico-culturale. E perciò non hanno sentito la necessità geopolitica dell’Europa. Se il progetto degli Stati uniti d’Europa non cammina, una ragione di fondo è che la sinistra non ha posto né il discorso-narrazione sulla condizione del mondo globalizzato né la conseguente collocazione internazionale né, pertanto, l’Europa al centro della propria azione educativa e programmatica rispetto alla società civile. Se oggi un nazionalismo cieco – che non vede in primo luogo gli interessi nazionali – emerge a livello di leadership politiche e di classi dirigenti, appoggiate dalla maggioranza degli elettori, ciò accade perché ha covato a lungo sotto le ceneri del nazionalismo democratico, che era protetto da un assetto geopolitico stabile. L’unico leader europeo che ha assunto uno sguardo sovrannazionale, sulla scia di Monnet, Schumann e Delors, è stato Macron. Che ha dovuto rompere con la tradizione socialista francese. A seguire, timidamente, Angela Merkel, sulla scia di Adenauer, Kohl e Schauble.

Il tramonto provvisorio (?) di Renzi

Renzi è stato ferocemente combattuto dentro e fuori il PD, perché aveva intravisto l’erosione della vecchia tradizione comunista, socialdemocratica e cattolico-democristiana. Il grido di battaglia con cui si è presentato sulla scena politica nazionale è stata “la rottamazione”. Faceva e fa parte del lessico familiare, che ha incominciato a risuonare fin dagli anni ’90 con il movimento referendario, Mani pulite, la Rete, i cappi leghisti, i girotondi, gli arancioni, i meetup, i vaffa, fino al più recente “ritiratevi tutti!”… I contenuti di rivolta contro la politica di quei movimenti erano decisamente ambigui; alla fine sono confluiti nel M5S. Occorreva una contro-elaborazione culturale, di cui il PD a trazione Renzi non è stato capace. E non perché ha perso il contatto con le periferie, con “il nostro popolo”, come gli viene rimproverato da Zingaretti e Martina, ma perché non è stato capace di ricostruire un legame con il cervello del Paese, che sta nelle Università e nei centri di ricerca, che gli restituisse uno sguardo realistico – dall’interno – della società italiana, quale non si può avere dalle sedie alte di un talk-show o dai circoli ristretti di partito. Tanto più che la vecchia accademia intellettuale post-comunista e quasi tutta la vecchia classe dirigente post-pci e post-dc gli hanno subito mosso contro.

Parlare alla pancia del Paese è facilissimo. Occorre maggiore attrezzatura intellettuale per dire la verità alla sua mente e al suo cuore. Gli è mancato il quadro teorico del cattolicesimo/socialismo liberale. Gli è mancata la visione geopolitica. Gli sono mancati gli Stati uniti d’Europa. Insomma, un deficit grave di cultura politica. Né poteva bastare il governo a trascinare il Paese, per l’inevitabile distanza tra le promesse sempre troppe e troppo rutilanti e la fatica delle mediazioni quotidiane. Così le riforme, sono state “dimezzate”, come sostiene Marco Leonardi. Anche l’europeismo ne è uscito dimezzato! Tuttavia, alla fine, ciò che ha deciso il destino di Renzi sono stati i suoi errori strategici. Facilmente elencabili: la rottura del Patto del Nazareno, l’intestazione personale della battaglia referendaria, il mancato ricorso alle elezioni dopo la sconfitta referendaria, in questo caso in concorso di colpa con Mattarella. L’ultimo e il più grave? Il rifiuto ostinato di discutere degli errori compiuti. Si può comprendere il fastidio per l’uso politico di queste défaillances da parte degli oppositori interni e esterni. Ma renderne ragione a sé e agli altri è segno di capacità di leadership e garanzia che, forse, non si ripeteranno.