Paolo Gentiloni al Festival Fare la pace: “La politica deve coltivare competenza e serietà”

«Stato sociale, pace, democrazia liberale. L’Europa è questo e lo è stato per decenni, penso al fatto che da settant’anni nel continente non ci sono più guerre: vogliamo rinunciare a tutto questo?». Paolo Gentiloni guarda al vecchio sogno europeo, ne fotografa i tre tratti peculiari e li pone davanti alla sfida del tempo. Perché c’è un cruccio, nella mente dell’ex premier: «Ho paura che chi ci governa possa innescare un meccanismo che ci porti ai margini dell’Unione europea, i segnali sono innumerevoli». Lo ha rimarcato mercoledì 5 dicembre, al Centro congressi Papa Giovanni XXIII di Bergamo, ospite di Bergamo Festival Fare la pace, per presentare il suo libro La sfida impopulista. Da dove ripartire per tornare a vincere (Rizzoli, 266 pp., 19,50 euro), interrogato dalle domande e dalle riflessioni di Nando Pagnoncelli, presidente di Ipsos Italia e membro del comitato scientifico di Bergamo Festival, e di Paolo Magri, vice presidente dell’Ispi e membro del comitato scientifico di Bergamo Festival. Ma è la stessa Europa che deve cambiare, Gentiloni non lo nega. Anzi evidenzia le responsabilità dei grandi del continente, due su tutte: «L’Europa deve farsi carico di ciò che oggi non è al centro della sua agenda: il lavoro, meglio ancora la qualità del lavoro, e la gestione comune dei flussi migratori. Negli Stati membri si parla solo di questo, eppure nelle politiche europee, quelle che si fanno stanziando budget e scrivendo dossier, non sono fondamentali». Questa svolta si potrà fare solo con scelte radicali: «Il passo avanti decisivo nell’integrazione europea e nel federalismo europeo si farà solo nel momento in cui si avrà il coraggio di farlo con 15-20 Stati membri», chiosa Gentiloni, «perché a 27 non ce la si fa».
Romano, 64 anni, un cursus honorum che lo ha portato a diventare prima ministro (delle Comunicazioni dal 2006 al 2008 nel Governo Prodi II, successivamente degli Esteri nel Governo Renzi) e poi presidente del Consiglio dal dicembre 2016 al giugno di quest’anno. Nel libro, Gentiloni inquadra il tempo del presente, partendo dalla parola chiave che descrive il vento che soffia il mondo: populismo. «Io parlerei di nazionalpopulismo, cioè dell’intreccio tra populismo e sovranismo – specifica Gentiloni -. Non è un’eruzione momentanea, è un fatto che ha carattere globale e l’Italia è uno dei Paesi nell’occhio del ciclone, ma il nazionalpopulismo è al governo anche nello Stato più potente del mondo, gli Usa. Da dove nasce? È una risposta agli effetti imprevisti della globalizzazione: la ricchezza è aumentata per un lungo periodo, ma allo stesso tempo le disuguaglianze si sono ampliate anziché ridursi. Il nazionalpopulismo ha visto l’emergere di queste contraddizioni molto prima delle forze democratiche progressiste, ma ha dato una risposta totalmente negativa e pericolosa. La posta in gioco non è solo l’incapacità di gestire l’economia: è anche l’intreccio tra democrazia e libertà, perché il nazionalpopulismo teorizza la democrazia illiberale». Con una metafora a prestito: «Oggi la democrazia liberale è un giardino costruito dentro una giungla, e la giungla sta mangiandosi un pezzo di giardino».
Inevitabilmente s’è parlato di immigrazione. Che è una questione complessa, rimarca più volte Gentiloni, inquadrando il tema in ottica geopolitica. «L’Africa crescerà demograficamente in tempi rapidissimi – ricorda il deputato del Partito democratico -. Chi dice “aiutiamoli a casa loro”, se lo fa in buona fede, dice una cosa sacrosanta. E noi, sia come Governo Renzi che col mio, lo abbiamo fatto, raddoppiando i fondi per cooperazione internazionale allo sviluppo. La questione è rendere gestibile il problema migratorio: peccato che l’attuale governo, oltre a cullarsi sui risultati di Minniti, dia l’impressione di non voler risolvere il problema, ma di cavalcarlo. Sembra che vogliano gli scandali, i momenti di scontro, perché di quei momenti si nutre il loro consenso. Se il problema rientra, non gli conviene. L’impostazione degli ultimi provvedimenti in materia di immigrazione alla lunga possono essere un problema di sicurezza: chi semina esclusione, raccoglie odio. Occorre invece un sistema di integrazione diffusa, invece si smantellano le buone pratiche costringendo le persone alla clandestinità e a comportamenti illegali. E poi ci si tira indietro dall’accordo globale sull’immigrazione (il Global compact, ndr)».
Non ci sono però solo le critiche. Nel dialogo di Gentiloni c’è spazio per l’autocritica, ma anche i consigli su come le forze liberaldemocratiche debbano ripartire: «Dobbiamo riappropriarci dell’orgoglio e del valore della nostra identità. Coltivare competenza, serietà e affidabilità è un modello ancora vincente: non è sufficiente, ma resta un requisito per fare politica. Il vero tema, però, è riuscire ad abbinare la competenza alla capacità di suscitare nuovamente emozioni nelle persone a cui ci rivolgiamo».