Giornata della memoria. La storia dimenticata dei deportati politici alla caserma Montelungo

Settantaquattro anni fa i soldati dell’esercito sovietico entrarono ad Auschwitz e videro con i loro occhi l’immane tragedia che cinque anni di sterminio avevano prodotto. Da quel 27 gennaio ’45 tanto si è fatto, istituendo giornate, musei e associazioni dedicati alla Memoria di ciò che è stato, affinché quanto accaduto non cadesse nell’oblio ma servisse da edificante monito per i posteri. L’amministrazione comunale di Bergamo, da sempre molto attiva in tal senso, propone per questo 2019 anche un interessante e inedito progetto intorno all’ex caserma Montelungo. L’obiettivo: concentrarsi su un episodio poco noto della storia bergamasca, facendo luce su di una struttura che consegnò alla deportazione verso Mauthausen alcune centinaia di persone. Alla riqualificazione della Montelungo ha contribuito anche l’ANED (Associazione Nazionale Ex Deportati nei campi nazisti). Il vicepresidente della sezione di Bergamo è Leonardo Zanchi, ventiduenne di San Pellegrino. Il suo forte impegno si traduce soprattutto negli incontri nelle scuole, per divulgare e tramandare ciò che è stato, e si lega indelebilmente al ricordo del nonno, Bonifacio, deportato politico sopravvissuto a Buchenwald.
Quali novità ci sono nel programma della giornata della Memoria di quest’anno?
Oltre alle classiche cerimonie istituzionali e proposte culturali, nel ricchissimo programma di quest’anno, l’obiettivo è quello di concentrarsi su un episodio poco noto della storia cittadina. Pur lontana dai campi di concentramento, Bergamo ha avuto un ruolo non trascurabile nel sistema delle deportazioni. L’ex caserma Montelungo, con ingresso verso il parco Suardi, funzionò infatti, tra il marzo e l’aprile del ’44, da transito per più di 800 persone e la stazione di Bergamo divenne il punto di partenza per le deportazioni in Germania.
Entriamo nel dettaglio..
A causa degli scioperi che durante la Seconda guerra mondiale paralizzarono l’hinterland milanese, sede dei più grandi stabilimenti industriali nell’Europa nazista, centinaia di lavoratori di Sesto San Giovanni e dintorni furono arrestati e, in seguito, deportati nei lager. Diversi vennero trattenuti alla Montelungo, per poi partire dalla stazione di Bergamo verso Mauthausen. Questa vicenda è ricostruita molto bene nello spettacolo “Matilde e il tram di San Vittore”, in scena al Teatro Sociale la sera del 28 gennaio, completamente gratuito e aperto a tutta la cittadinanza. La rappresentazione nasce dalle testimonianze raccolte da Giuseppe Valota, presidente dell’ANED di Sesto San Giovanni e Monza, figlio di un deportato morto a Mauthausen. Lo spettacolo mette in luce la forte scelta di migliaia di persone che si opposero al nazifascismo, pagando questa presa di posizione a caro prezzo. La voce narrante è quella delle donne, private dei loro cari, incarcerati presso la Montelungo.
Una prospettiva diversa..
La vicenda della Montelungo tocca un tipo di deportazione, quella politica, a lungo poco considerata e studiata. Accanto all’Olocausto degli ebrei, tragedia immane e straziante, sarebbe un torto storico non menzionare questa esperienza: l’Italia è infatti l’unico paese in Europa ad avere più deportati politici, oltre 32mila, che razziali. È giusto perciò che anche di loro venga portata avanti la memoria. Per il politico, infatti, la condanna non è segnata da “una presunta inferiorità razziale” bensì da una ferma presa di posizione: la volontaria scelta di preferire il bene al male e di seguire, ad ogni costo, l’ideale di libertà. A mio avviso, ciò è più che mai attuale e lascia un profondo insegnamento per i giovani. Bisogna prendere delle posizioni nella vita, e a volte costano: i nostri deportati hanno pagato il prezzo più caro per la scelta, peraltro giusta, di opporsi al totalitarismo. In tal senso si spiega la decisione del Comune di porre, sulla locandina del 27 gennaio, il triangolo rosso, simbolo con il quale venivano identificati i prigionieri politici: l’emblema di una deportazione che non va dimenticata.

 

Una storia, quella della Montelungo, caduta però nell’oblio..
Purtroppo, Bergamo ha quasi dimenticato questa vicenda. Tuttavia, all’epoca, tra l’indifferenza dei più, alcuni bergamaschi, pur consapevoli del pericolo, raccolsero e spedirono i bigliettini che i prigionieri lanciavano dall’interno della caserma. Altri cittadini, il 17 marzo ’44, durante il trasferimento del primo gruppo di deportati verso la stazione, passarono loro cibo e bollini delle tessere annonarie.
Piccoli gesti dal valore, tuttavia, incalcolabile..
Esattamente: espressioni di solidarietà rimaste  indelebili nella memoria di chi è sopravvissuto. Ad esempio, la giovane operaia comasca Ines Figini venne detenuta alla Montelungo in attesa della deportazione, colpevole di aver protestato contro il questore durante una giornata di sciopero in fabbrica. Oggi, l’allora temeraria ventenne, non ricorda molto di Bergamo, se non la solidarietà dei suoi abitanti: il capoluogo orobico, pur avendola consegnata all’inferno dei lager, rimane nella memoria di Ines come l’ultimo avamposto del bene. È da qui che bisogna  ripartire perché questa storia si radichi nella consapevolezza della nostra città, soprattutto in quella dei più giovani, futuri testimoni della Memoria.
Una consapevolezza che per te è una sorta di eredità familiare?
Legata alla figura di mio nonno, deportato politico, sopravvissuto a Buchenwald. Bonifacio Ravasio nacque nel ’27 ad Alzano Lombardo, in una famiglia contadina, dentro la quale si respiravano idee socialiste. Il nonno paterno, Francesco, per le sue posizioni politiche, venne più volte percosso e umiliato dai fascisti. In questo clima, Bonifacio crebbe naturalmente antifascista. Nel ’43, appena sedicenne, lavorava per la STIPEL, con il compito di consegnare a Bergamo gli elenchi telefonici porta a porta. All’interno di questi plichi inseriva volantini contro Mussolini e il fascismo, raggiungendo così le persone dentro le loro case, cercando di sensibilizzarle riguardo a quanto stava accadendo in Italia. Nonostante le diverse segnalazioni, non venne tuttavia mai licenziato. Un giorno,  Francesco fu convocato per l’ennesima volta presso la sede dei fascisti di Alzano, dove per la sua adesione al socialismo sarebbe stato picchiato. Bonifacio decise di seguirlo di nascosto e, sentendone le urla all’interno della caserma, fece irruzione nel locale, scatenando una rissa e salvando il nonno, almeno per quella giornata, dalle grinfie degli aguzzini. Ricercato dai repubblichini, nella primavera ’44, si rifugiò a Tarcento, in Friuli, da lontani parenti. Unitosi alla resistenza locale, dopo un rastrellamento, venne catturato dalla Gestapo, nella notte del 10 luglio. Fu poi portato alla prigione di Udine, in cui sperimentò la durezza e crudeltà delle carceri fasciste. Il 31 luglio, lo trasferirono via treno, in condizioni disumane, a Buchenwald, dove arrivò il 3 agosto.
L’inizio della fine..
A Buchenwald, nel cuore della Germania, le condizioni erano durissime. Fame, maltrattamenti, impiccagioni e ogni tipo di privazione erano all’ordine del giorno. C’erano anche dei prototipi di camere a gas e gli ebrei erano eliminati lì dentro. I deportati vivevano  in 1200 nella stessa baracca, arrangiati su quattro file di letti a castello. Oltre allo sfinimento fisico, era in atto anche l’annientamento mentale: il diciassettenne Bonifacio, cui venne tatuata la matricola 33843, perse il suo stato di essere umano, diventando a tutti gli effetti un semplice, insignificante, numero. La morte era sempre dietro l’angolo. Bastava un piccolo incidente per scatenare le rappresaglie naziste. Allora, venivano radunati tutti i deportati nella piazza principale e, scelti a caso una trentina di loro, uccisi davanti agli altri. Mio nonno fu poi trasferito a Hadmersleben, dove lavorava in una miniera di sale, 600 metri sotto terra. Nell’aprile ’45, con il fronte americano ormai vicino, il campo venne evacuato dai nazisti e i prigionieri incolonnati per la “marcia della morte”: diversi giorni a piedi, senza mangiare, con qualche ora per riposarsi sul ciglio delle strade e la certezza che chi cadeva lungo il cammino o non ce la faceva più sarebbe stato fucilato. La marcia si interruppe presso il fiume Elba, dove i prigionieri furono caricati come bestie su due barconi, per la seconda parte di viaggio. L’8 maggio ’45 nei pressi della città ceca di Lovosice, si imbatterono nei russi, i quali iniziarono a sparare contro i nazisti. Nel caos, molti deportati annegarono. Bonifacio si salvò, grazie all’aiuto di uno speciale angelo custode. Fu infatti tratto in salvo da Sasha, giovane soldato russo, che, nel trasportare a riva mio nonno, venne ucciso da una pallottola tedesca. Dopo due giorni di coma, il 10 maggio Bonifacio si risvegliò, in un ospedale da campo sovietico. Finalmente libero.
Poi con il ritorno a casa, l’inizio di una nuova pace?
Non esattamente. Per lui, come per molti altri, il viaggio di ritorno, nell’Europa devastata, fu complicato e logorante. Durante il tragitto, Bonifacio incontrò un ufficiale americano, che gli disse le seguenti parole, per sempre impresse nella memoria di mio nonno. “Hai la fortuna di andare a casa, non raccontare mai quello che hai visto, perché ti prenderebbero per pazzo”. Una profezia inizialmente avveratasi. Al suo arrivo a casa, i genitori faticarono a riconoscere in quel corpo di 37 chili, segnato dalle cicatrici, il loro Bonifacio. Il percorso di riabilitazione fisica fu lento. Dal punto di di vista emozionale, mio nonno, come molti altri sopravvissuti, visse un momento di crisi, segnato dal silenzio e dalla continua e dolorosa rievocazione mentale del periodo nel lager. Successivamente, anche in nome dei compagni morti, sentì il bisogno di raccontare. Prima a noi familiari, poi in pubblico. Alle conferenze, lo accompagnavo sempre io: iniziava a parlare lui, poi, quando la voce gli si rompeva per l’emozione, continuavo il racconto. Nel 2016 Bonifacio è scomparso. Nonostante ciò, non ho smesso di divulgare la sua storia, soprattutto nelle scuole, ai più giovani: è questa la mia personale  resistenza contro i nuovi fascismi.
In nome di quale messaggio?
Penso che l’eredità spirituale più importante lasciataci da questa esperienza si possa trovare nei giuramenti dei deportati. Sono testi scritti, ad esempio, a Mauthausen e Buchenwald, dagli ex prigionieri prima di lasciare il lager, una volta avvenuta la liberazione. Con il peso di tutti i compagni morti, delle umiliazioni subite, questi uomini, seppur nella differenza di lingue, nazionalità e sensibilità, promettono all’unanimità la solidarietà internazionale, l’estensione della libertà e dei diritti. In buona sostanza delineano il nucleo fondante dell’Unione Europea. Sono parole di persone che, pur pesando a mala pena 40 chili, hanno uno slancio verso il futuro, dato loro proprio dall’immane esperienza della deportazione. Esprimono valori di libertà e giustizia, estremamente attuali al giorno d’oggi, sui quali abbiamo il dovere di camminare, per dare un senso a quanto è successo.