Papa Francesco sta per partire per Abu Dhabi, negli Emirati Arabi Uniti, dove, dal 3 al 5 febbraio, parteciperà all’incontro interreligioso internazionale sulla «fratellanza umana» e sarà ospite dello sceicco Mohammed bin Zayed Al Nahyan. La visita, annunciata lo scorso dicembre e avvenuta anche in risposta all’invito della Chiesa cattolica locale, non ha lasciato indifferenti i fedeli né, tanto meno, gli esperti di geopolitica e Medio Oriente. È la prima volta, del resto, che un Papa si reca nella penisola arabica e che interviene ad un incontro interreligioso organizzato da un’istituzione islamica: un evento che può segnare una svolta nel dialogo fra mondo arabo musulmano e Chiesa cattolica e che cade proprio nell’anno in cui la Chiesa ricorda gli otto secoli dall’incontro tra san Francesco e il sultano Malik al-Kamil, avvenuto in Egitto nel 1219. «Quando si parla di dialogo, bisogna chiarire al meglio quel che si vuole ottenere e dove si vuole arrivare – afferma Amedeo Maddaluno, analista di geopolitica che si occupa di Medio Oriente da anni –. Ci si può incontrare ma rimanere drammaticamente distanti. Il dialogo può diventare un mero esercizio di stile se non ci si dà obiettivi precisi. Ma papa Francesco, grande tessitore diplomatico, ha l’autorità morale e l’abilità politica per non fallire». Al Papa sarà consentito anche di presiedere una messa, ad Abu Dhabi. Una possibilità più unica che rara, dato che, ordinariamente, le attività religiose delle comunità cristiane sono possibili solo all’interno delle chiese. «Sarà un momento suggestivo, foriero di speranza – conferma Maddaluno –, ma è bene ricordare che questo gesto è solo la punta dell’iceberg di anni di lavoro diplomatico nascosto. Il pubblico vedrà la foto-evento, ma a una svolta come questa ci si arriva dopo molto tempo. E ciò dà ancora più importanza a questa visita, che rimarca il ruolo fondamentale della Chiesa cattolica nel mondo». Una visita, quella del Papa, che non ha solo un valore spirituale: «Alla base di questo invito all’interno della penisola araba, territorio sacro per i musulmani di tutto il mondo, c’è sicuramente una motivazione politica e strategica ben definita – spiega Maddaluno –. Difficile capire quale, però. Bisogna infatti tenere a mente come, nel gioco delle parti del Consiglio di cooperazione del Golfo, mentre la monarchia saudita ricopre il ruolo di guardiano dell’ortodossia sunnita più radicale, gli Emirati impersonano il poliziotto buono: incarnano lo stato aperto al mondo, che si sforza di mantenere un dialogo aperto con tutti (si pensi alla Abu Dhabi dei grattaceli dove si serve alcol). Non si comprende, però, se gli Emirati vogliano portare avanti una partita autonoma o meno, ovvero se questo invito sia un modo per smarcarsi dal wahabismo saudita o, al contrario, se sia l’inizio di una strategia per normalizzare i rapporti fra il mondo occidentale e Riad. Gli Emirati non vogliono certo farsi fagocitare dall’Arabia Saudita (come è successo al Bahrein), ma nemmeno tagliare i ponti del tutto con lei (come ha fatto il Qatar)». Secondo le stime, sono circa un milione i cristiani presenti negli Emirati Arabi Uniti (il 10% della popolazione): una Chiesa anonima a cui, forse, il viaggio di Francesco potrà dare un nome. «I cristiani locali sono lavoratori: immigrati dello Sri Lanka e delle Filippine – dice Maddaluno –. Hanno chiese e possono pregare, le loro condizioni sono migliori di quelle che potrebbero trovare in Arabia (dove chiunque non sia musulmano sunnita è un cittadino fantasma). Lavoratori che vivono, però, in situazioni di semi-schiavitù. Oltre i palazzi luminosi, ci sono realtà disumane: bisogna ricordare che si parla di monarchie dittatoriali, dove vige un regime quasi feudale. Ma il Vaticano è conscio che non ci si può richiudere su se stessi e che il compito della diplomazia non è redimere il mondo: infatti, per quanto legato alla Chiesa e, dunque, alla sua missione spirituale, il Vaticano è uno stato come un altro e Papa Francesco lo sa bene: il dialogo non si rifiuta mai, soprattutto a coloro con cui si fa più fatica a parlare».